IL “TRANSITO” DI VENERE E LA MISURA DEL MONDO
storia avventurosa dell’osservazione del “transito” di Venere
di Paolo Morini – Marco Garoni

 

Ø      LA MISURA DEL MONDO

L’idea di misurare l’universo ha sempre affascinato le civiltà di ogni parte della Terra. L’esigenza di confermare la vastità dell’universo, la curiosità di scoprire e misurare la perfezione del creato, hanno stimolato l’uomo a trovare nuovi metodi che non fossero basati soltanto sulle tradizioni o estrapolati da racconti tramandati da secoli, ma basati su dati tangibili, misurabili e quanto più dimostrabili.

Il primo passo per misurare le dimensioni dell’universo deve partire certamente dalla misura del nostro mondo, dalla misura delle dimensioni e della forma della Terra. Nel III sec. a.C. Eratostene propose una misura ricavata utilizzando un metodo estremamente semplice. Ad Assuan (allora chiamata Siene), nel giorno del solstizio estivo, il Sole illuminava il fondo dei pozzi. Data la profondità di questi pozzi si poteva assumere che, quel giorno, i raggi solari arrivassero perpendicolarmente al suolo. Nello stesso giorno ad Alessandria, dove Eratostene lavorava, un’alta torre proiettava a terra un’ombra che formava un angolo di 7°,12 con la verticale. Assumendo la Terra sferica, questa differenza era da imputarsi alla diversa prospettiva di osservazione del Sole. L’angolo trovato rappresenta quindi la distanza angolare tra Assuan ed Alessandria.

Questo angolo corrisponde a circa 1/50 dell’angolo giro e quindi a 1/50 della circonferenza terrestre. Le stime della distanza tra le due città era allora di circa 5000 stadi. Le fonti storiche definiscono per lo “stadio” un valore compreso tra 154 e 215 metri. Usando uno “stadio” di 157 metri si ottiene un valore del diametro terrestre pari a circa 12.629 km, una misura straordinariamente vicina a quella oggi accettata (inferiore soltanto di circa 113 Km). Ovviamente una misurazione di questo genere non trovò il favore di tutti. In particolare Tolomeo, astronomo molto influente, nel suo Almagesto, adottò un’altra misura di 2.200 km inferiore. Anche nei secoli successivi l’errore influenzò la concezione del mondo tanto che anche un marinaio italiano in cerca di gloria e fama, Cristoforo Colombo, ne fu “vittima” progettando il suo viaggio con le misure di Tolomeo, un viaggio che si rivelò molto più lungo del previsto.

Mentre Eratostene misurava la Terra, un suo contemporaneo si spingeva più lontano cercando di misurare la distanza della Luna. Osservando le eclissi di Luna e di Sole Aristarco calcolò una distanza corrispondente a 30 diametri terrestri (circa 370.000 km). Successivamente provò a calcolare anche la distanza del Sole. Questa volta, però, vista l’estrema difficoltà nel valutare gli angoli ad occhio nudo a così grandi distanze, il risultato fu molto “deludente”: 7 milioni di km contro una distanza reale di 150 milioni.

Il secolo successivo (189 a.C.) Ipparco usò, per misurare la distanza della Luna, un altro metodo che usiamo da sempre: la Parallasse.

I nostri occhi sono distanti l’uno dall’altro circa 10 cm. Questa distanza ci permette di percepire la profondità, almeno fino ad un certo punto. I nostri 10 cm non sono però sufficienti a valutare grandi distanze perché in questo caso i nostri occhi dovrebbero essere distanti parecchi chilometri. Ipparco osservò la Luna ad Alessandria ed in Ellesponto (l'Ellesponto è il lungo e stretto braccio di mare chiamato oggi Stretto dei Dardanelli, che mette in comunicazione il Mare Egeo con il Mare di Marmara).

Il metodo della parallasse può, almeno in teoria, trovare applicazione anche per la misura della distanza del Sole e quindi dell’Unità Astronomica (UA). Le cose però si complicano. I nostri occhi dovrebbero essere distanti qualche migliaio di chilometri ed inoltre le misure vanno sincronizzate con buona accuratezza. L’orologio è un’invenzione relativamente moderna ed il pendolo non gradisce le traversate atlantiche. Gian Domenico Cassini, nonostante queste difficoltà, riuscì a stabilire per l’UA il valore di 140 milioni di km.

La vera rivoluzione nella determinazione dell’UA avvenne quando il matematico scozzese James Gregory propose di usare i “transiti” dei pianeti interni (Mercurio e Venere).

 

Ø      Presentazione

A causa della posizione del nostro pianeta nel sistema solare (il terzo in ordine di distanza dal Sole), e trascurando gli asteroidi e gli altri corpi minori, sono tre i corpi celesti che possono frapporsi fra noi e il Sole.

Uno di essi è la nostra Luna la quale, ponendosi tra Terra e Sole, provoca le note e spettacolari eclissi di Sole, che possono essere totali o parziali.

Le eclissi di Sole sono abbastanza frequenti, ogni anno se ne verificano almeno due e se ne possono avere fino a cinque. Tuttavia è abbastanza raro osservare una eclissi totale a meno di non effettuare appositamente un viaggio. La zona interessata dalla totalità, infatti, è una fascia larga appena un centinaio di km per cui la frazione di superficie terrestre interessata dal fenomeno è molto ridotta.

Un altro corpo celeste che si può frapporre fra Terra e Sole è il pianeta Mercurio.

Questo avvenimento, detto “transito”, è decisamente più raro delle eclissi di Sole. È accaduto quattordici volte in tutto il XX secolo e accadrà ancora quattordici volte in questo secolo. L’ultimo “transito” di Mercurio si è verificato il 7 maggio 2003 e il prossimo avverrà l’8 novembre 2006 (ma non sarà visibile dall’Italia).

Nonostante il fenomeno sia di per sé più raro, è più facile da osservare dell’eclissi totale di Sole in quanto, durante il “transito” (che dura di solito diverse ore), chi osserva il Sole vede anche la “sagoma” del pianeta che lo attraversa.

Dal momento che il Sole, in qualunque momento, è visibile da metà del globo terrestre, la superficie da cui si può vedere il fenomeno è molto grande.

Anche Venere, il pianeta che si trova fra Mercurio e la Terra in ordine di distanza dal Sole, può transitare sopra al disco della nostra stella, ma il “transito” di Venere è un fenomeno ancora più raro di quello di Mercurio, l’ultimo infatti ha avuto luogo il 6 dicembre 1882, sei mesi dopo la morte di Giuseppe Garibaldi.

Il fenomeno si presenta di rado perché il necessario allineamento Sole-Venere-Terra risente del fatto che l’orbita di Venere è inclinata rispetto a quella della Terra. Se osserviamo il sistema solare dall’alto, l’allineamento dei tre corpi sembra ripetersi abbastanza frequentemente, ma guardando lungo il piano dell’orbita terrestre si verifica che nella maggior parte dei casi i tre corpi non siano affatto allineati.

Di “transiti” ne avvengono mediamente quattro in un ciclo di 243 anni, secondo intervalli di 8, 121.5, 8 e 105.5 anni, e possono aver luogo solamente intorno alle date del 6 giugno e del 7 dicembre.

 

Ø      Le prime previsioni e le prime osservazioni

La prima corretta previsione di un “transito” si deve all’astronomo Joannes Keplero che, nel 1629, pubblicò la Admonitio ad astronomos (Avviso per gli astronomi), nella quale, in poche ma importanti pagine, annunciava due “transiti” sul Sole, il primo di Mercurio e l’altro di Venere, rispettivamente il 7 novembre ed il 6 dicembre 1631, ed esortava gli astronomi all’osservazione di questi importanti fenomeni.

Uno dei pochi studiosi ad accogliere l’invito di Keplero (che però non visse abbastanza per verificare queste sue previsioni) fu il francese Pierre Gassendi, un anti-aristotelico convinto, amico di alcuni dei massimi ingegni del tempo, fra cui Galileo.

Agli inizi di novembre del 1631, Gassendi, nella sua abitazione di Parigi, si preparò all’osservazione del “transito” di Mercurio e, avendo qualche dubbio sulla precisione della predizione di Keplero, iniziò ad osservare il Sole alla ricerca di Mercurio fino dal 5 novembre, due giorni prima della data prevista.

Il cielo però rimase a lungo coperto da spesse nubi (la dannazione degli astronomi) e il Sole si mostrò solamente nelle prime ore del mattino del 7 novembre, ancora avvolto da nuvole minacciose. Alle 9 il disco del Sole gli apparve totalmente privo di particolari interessanti, a parte una piccolissima macchia nera che, in un primo tempo, l’astronomo ritenne essere una “macchia solare” per poi accorgersi, con grande meraviglia, che quel piccolo punto sul Sole era in realtà il pianeta Mercurio.

Galvanizzato dal successo dell'osservazione del passaggio di Mercurio, Gassendi, un mese dopo, si apprestava ad osservare un nuovo “transito”, questa volta di Venere.

Alle prime luci dell’alba un velo di nebbia copriva il Sole ma, finalmente, alle 8 la luminosa immagine della nostra stella si stagliò nettissima. Venere però non compariva.

Stoicamente, Gassendi rimase in osservazione fino al tramonto: l'unico particolare visibile era una macchia solare. La snervante ricerca continuò, senza successo, anche nelle giornate del 7 e dell’8 dicembre, ma oggi sappiamo che si trattò di un “transito” non visibile da Parigi.

Il primo resoconto dell’osservazione di un “transito” di Venere lo dobbiamo all’inglese Jeremiah Horrocks. Horrocks era un giovanissimo studioso di astronomia, i cui interessi erano orientati allo studio e al calcolo delle posizioni dei pianeti: nel 1639, poco più che ventenne, mentre calcolava le posizioni di Venere per gli ultimi mesi dell’anno, scoprì che il pianeta sarebbe transitato sul Sole il 4 dicembre.

In quel periodo Horrocks viveva nella chiesa del villaggio di Hoole, a 25 km da Liverpool e pur non essendone il curato, data la giovanissima età, era tuttavia coinvolto nella conduzione delle funzioni religiose. Il 4 dicembre 1639, il giorno del “transito”, era domenica ed era così impegnato che riuscì a iniziare le osservazioni solo dalle 15, con il Sole ormai al tramonto. Già dalla prima occhiata capì che il meraviglioso spettacolo del “transito” di Venere sul Sole si stava svolgendo come previsto. Rapito, seguì il  fenomeno fino al tramonto.

Horrocks affidò le sue memorie allo scritto Venus in Sole visa (che si traduce “Venere osservato sul Sole”), pubblicato postumo vent’anni dopo il “transito” a cura dell’astronomo Hevelius.

Un altro testimone dello stesso “transito” fu un altro appassionato di astronomia che intratteneva una fitta corrispondenza scientifica con Horrocks, il commerciante di tessuti William Crabtree, che viveva a Salford, nei pressi di Manchester.

Crabtree fu meno fortunato. Sopra Salford le nuvole si dissiparono verso le 15.30, appena in tempo per scorgere Venere sul Sole in maniera molto fugace.

Pochi mesi dopo il “transito”, il giovane Horrocks morì improvvisamente, a soli 22 anni, forse stroncato da una fulminea malattia epidemica.

Bailly, famoso storico francese dell’astronomia, scrisse che egli “aveva attraversato come una meteora la vita terrena”, e che “sembrava essere apparso sulla Terra solamente per vedere il passaggio di Venere.

Crabtree morì tre anni dopo Horrocks, non più ventenne ma ancora relativamente giovane, e in virtù del loro lavoro verranno ricordati come gli osservatori del primo “transito” di Venere ad essere stato previsto e confermato.

Nel 1677 il grande astronomo inglese Edmund Halley, allora poco più che ventenne, su invito del matematico scozzese James Gregory, si recò all’isola di Sant’Elena, nell’Oceano Atlantico, per seguire un “transito” di Mercurio.

Halley, sfruttando il “transito”, cercò di determinare un valore della distanza Terra-Sole, ma si rese conto che le sue misure erano molto incerte e si convinse che se avesse potuto osservare un “transito” di Venere avrebbe potuto ricavare una misura molto più affidabile. Nel 1691 Halley pubblicò sulle Philosophical Transactions della Royal Society un’importante dissertazione sulle “congiunzioni” con il Sole dei pianeti interni, che comprendeva l’elenco dei 29 “transiti” di Mercurio e dei 17 di Venere, l’ultimo dei quali era proprio quello che si verificherà nel 2004.

L’idea di Halley, sviluppata in scritti successivi, era basata sul fatto che due osservatori, posti in località tra loro molto lontane, vedono Venere descrivere due diverse traiettorie sul Sole.

Inoltre, secondo il metodo di Halley, non era necessario che i due osservatori avessero gli orologi sincronizzati sulla stessa ora, una richiesta impossibile per le possibilità dell’epoca, ma necessaria perché la grandezza più importante da misurare era la durata del “transito”.

Dal momento che per due osservatori situati agli estremi del globo terrestre il “transito” poteva presentarsi con una durata differente di ben 17 minuti, Halley era convinto che il suo metodo si prestasse alla determinazione della Unità Astronomica con la precisione di 1 parte su 500 e cioè con un errore dello 0,2%.

Halley morì nel 1742 a 85 anni di età, 19 anni prima del “transito” di Venere successivo a quello osservato da Horrocks e Crabtree.

Una sua memoria alla Royal Society si concludeva con un appello alle generazioni future di astronomi, perché osservassero i successivi “transiti” di Venere.

A questi astronomi veniva augurato che le nubi non li privassero di questo spettacolo, e inoltre venivano anticipate le congratulazioni per la fama immortale che avrebbe ottenuto colui che avesse misurato le dimensioni esatte dell’orbita della Terra.

Di tutte le osservazioni che vennero effettuate nel corso dei quattro “transiti” di Venere successivi alla morte di Halley, ricorderemo quelle condotte da astronomi che si distinsero, oltre che per capacità scientifiche, per senso di avventura e spirito di sacrificio.

 

Ø      Il “transito” del 1761

Quando finalmente arrivò il tanto atteso “transito” del 6 giugno 1761, le principali nazioni europee organizzarono importanti spedizioni scientifiche per la sua osservazione, con l’ambizioso obiettivo di misurare la distanza Terra-Sole e, di conseguenza, tutto il sistema solare.

Dalla Francia si mossero tre spedizioni principali.

Il trentaquattrenne abate Jean Chappe d'Auteroche, geografo ed abile osservatore, astronomo all’osservatorio di Parigi e inventore di un famoso “telegrafo”, partì per Tobolsk, in Siberia, nel novembre del 1760.

Tobolsk si trova a 400 km a Est degli Urali, e arrivare durante l’inverno in un luogo simile, a quasi 6 mila km da Parigi, richiedeva un coraggio non comune.

In compagnia del suo servitore personale e di un orologiaio di fiducia, Chappe arrivò il 10 aprile a Tobolsk, dove impiantò un osservatorio in legno per sistemare gli strumenti e compiere le sue osservazioni. Gli abitanti della zona, dopo aver analizzato le sue manovre, si convinsero che fosse uno stregone che stava lavorando per distruggerli.

Sfortuna volle che in quel periodo il fiume principale della regione avesse straripato, allagando le campagne circostanti e questo rafforzò l’idea che in quello straniero ci fosse qualcosa che non andava.

Nonostante il clima di diffidenza Chappe riuscì a farsi alcuni amici che gli consigliarono di non recarsi mai da solo all’osservatorio e spesso, dopo le osservazioni, Chappe non rincasava, ma dormiva in una brandina presso il telescopio, lontano dal paese. La notte che precedette il “transito” fu nuvolosa e fredda, e Chappe, rintanato nel suo osservatorio per i soliti motivi di sicurezza personale, guardava con apprensione il rincorrersi incessante delle nuvole.

Finalmente un vento impetuoso iniziò a ripulire il cielo poco prima delle 7 del mattino, e il Sole apparve quando il “transito” era già iniziato, ma tutte le fasi seguenti furono ben visibili e cronometrate da Chappe con grande diligenza.

Una seconda spedizione francese era guidata dal cinquantenne canonico Alexandre-Gui Pingré, abilissimo calcolatore di effemeridi ed esperto di comete.

Pingrè si recò all’isola di Rodrigue, una colonia nell’Oceano Indiano, nell’arcipelago delle Mascarene. Il viaggio non fu senza inconvenienti, perché stava infuriando la guerra anglo-francese e per un momento la nave che trasportava gli astronomi e i telescopi rischiò di cambiare rotta per soccorrere una nave francese danneggiata in una battaglia. L’arrivo a Rodrigue avvenne con pochi giorni di anticipo e il sito, un’isola rocciosa con pareti a picco sul mare, non era dei più ospitali.

Tutte le attrezzature vennero installate ma purtroppo, dopo aver osservato l’inizio del “transito”, le nuvole coprirono il Sole e l’osservazione fu interrotta dal tempo inclemente.

La nave che doveva prelevare la spedizione attraccò alla fine di giugno, ma fu sorpresa da una nave da guerra inglese che l’attaccò e lasciò sull’isola marinai ed astronomi. Questi ultimi furono prelevati in settembre da una n1ave francese di passaggio, ma purtroppo anche questa nave subì l’attacco degli inglesi e venne catturata. Gli inglesi trattennero una parte dell’equipaggio, e gli astronomi furono lasciati sulla nave con la restante parte di marinai. Finalmente alla fine di maggio del 1762, quasi un anno dopo il “transito”, gli scienziati rividero le loro case a Parigi.

La terza spedizione era diretta a Pondicherry in India.

Guidata dall’astronomo Guillaume-Joseph-Hyacinthe-Jean-Baptiste le Gentil de la Galaisière (più brevemente “Le Gentil”), passò alla storia come la spedizione più sfortunata della storia dell’astronomia.

Giunto all’Isle de France il 10 luglio 1760, apprese che in India la guerra contro gli inglesi era combattuta senza esclusione di colpi da entrambe le parti. Dopo aver tentennato a lungo per il timore di trovarsi coinvolto in qualche cruento combattimento navale, si imbarcò su di un vascello che, dopo uno scalo all’isola di Bourbon, avrebbe tentato di sbarcare a Pondicherry. Ma la colonia francese era ormai stata conquistata dagli inglesi e la sua nave dovette quindi ritornare, di gran fretta, al porto di partenza.

Il giorno del “transito” Le Gentil, che si trovava in pieno oceano, tentò di scorgere Venere sul Sole dalla tolda traballante della nave, ma non riuscì in ogni caso a compiere nessuna misurazione utilizzabile dal punto di vista scientifico. Caparbiamente decise di rimanere nei mari del sud fino al successivo “transito” del 1769 e parleremo di lui poco più avanti.

Da parte inglese, e su pressione dell’astronomo reale James Bradley, la Royal Society inviò sull’isola di Sant’Elena gli astronomi Nevil Maskelyne e Robert Waddington, mentre Charles Mason (assistente di Bradley) e Jeremiah Dixon (un appassionato di astronomia) furono destinati all’isola di Sumatra.

La prima spedizione di Mason e Dixon partì in gennaio del 1761, ma loro nave, ancora nel canale della Manica, fu attaccata da una nave francese e fece ritorno a Portsmouth gravemente danneggiata e col pesante bilancio di 11 marinai morti e 37 feriti.

L’Ammiragliato provvide alla riparazione della nave e dispose che una nave da guerra la scortasse per la successiva partenza. Nel frattempo Mason scrisse alla Royal Society che non avrebbe avuto più il tempo di arrivare a Sumatra e propose un luogo alternativo nel Mar Nero Orientale. Forse il tono della proposta non era giusto, dato che ai due astronomi fu ingiunto di proseguire, a meno che non volessero recedere dall’incarico ed essere considerati dei traditori della scienza e della patria!

Con la coda fra le gambe lasciarono l’Inghilterra per la seconda volta diretti a Sumatra, ma alla fine di aprile giunsero nei pressi di Città del Capo in Sudafrica, a mille chilometri da Sumatra e a sole sei settimane di tempo prima dell’evento. Decisero pertanto di fermarsi a Città del Capo, che allora era colonia olandese, per effettuare le loro osservazioni. I due astronomi, molto coscienziosamente, osservarono il “transito” senza scambiarsi alcun dato e alla fine i tempi rilevati differivano fino a 4 secondi, un elemento di soggettività che non era stato previsto da Halley.

Della spedizione di Nevil Maskelyne all’isola di Sant’Elena, futuro esilio di Napoleone, ci è giunta memoria che le pessime condizioni meteorologiche non consentirono di osservare il “transito” per più di dieci minuti.

Complessivamente il “transito” di Venere del 1761 fu osservato da 120 astronomi di otto nazioni e da 60 stazioni di osservazione diverse.

Le aspettative su queste osservazioni erano enormi, ma purtroppo i risultati furono molto discordi e conseguentemente la distanza Terra-Sole poteva variare, a seconda dei dati utilizzati per il calcolo, da 123 a 157 milioni di chilometri.

Si trattava sicuramente di un notevole miglioramento rispetto alle misure precedenti, tuttavia si era molto lontani dalla precisione ipotizzata da Halley di 1 parte su 500. Le cause di dati così discordanti sono imputabili principalmente a due fattori. Anzitutto la necessaria conoscenza della latitudine e longitudine delle stazioni era spesso approssimativa. L’altra difficoltà era l’accuratezza sui tempi del “transito”. La precisione di almeno un secondo non si rivelò un’impresa facile, perché la turbolenza dell’aria rendeva i bordi del Sole e di Venere, osservati al telescopio, tremolanti e indistinti, per cui era difficile fissare l’istante preciso del contatto ed inoltre si osservò il cosiddetto fenomeno della “goccia nera”.

Questo fenomeno, che impressionò molto gli astronomi, venne descritto come un legamento che univa i bordi di Venere e del Sole. I due corpi celesti, in questo modo, apparivano uniti. Il pianeta Venere, dunque, non appariva come un “cerchietto”, ma sembrava proprio una goccia, da cui il nome dato al fenomeno.

Passata la fase dell’”effetto goccia nera”, Venere si presentava all’interno del disco solare, ma diventava difficile stimare con esattezza il momento in cui si staccava effettivamente dal bordo.

L’effetto fu in seguito attribuito a una serie di fattori, fra cui il disturbo della turbolenza atmosferica, le imperfezioni dell’occhio e difetti strumentali.

La durata stimata di questo “effetto” variava da pochi secondi a un minuto e sembrava dipendere più che altro dalla soggettività dell’osservatore. Gli astronomi, intanto, decisero che fosse necessario aspettare il successivo “transito” del 1769 per rendere giustizia ad Halley.

 

Ø      Il “transito” del 1769

I problemi riscontrati nel “transito” del 1761 non diminuirono l’entusiasmo per l’osservazione del successivo “transito” del 1769.

Le esperienze fatte e l’affinamento delle tecniche e degli strumenti facevano ben sperare in un miglioramento dei risultati nell’ottenimento e le maggiori istituzioni scientifiche promossero una serie di spedizioni per consentire l’osservazione del fenomeno in molti luoghi del pianeta.

A questo punto vale la pena ricordare che l’astronomo francese Le Gentil si trovava ancora in esilio volontario nell’Oceano Indiano e ritenendo che Manila, nelle Filippine, sarebbe stato un ottimo punto di osservazione, scrisse all’Accademia di Francia per comunicare il suo proposito. L’astronomo Lalande, però, gli suggerì di portarsi in una posizione migliore per osservare il “transito” e gli indicò la località indiana di Pondicherry, la prima sfortunata destinazione di Le Gentil.

Le Gentil obbedì al collega più anziano e si recò in India, sbarcando con un anticipo di 14 mesi rispetto alla data del “transito”. Questa volta ci sarebbe stato tutto il tempo di preparare le cose a dovere in vista del fenomeno che doveva aver luogo nella mattinata del 4 giugno.

Purtroppo, dopo un mese di maggio all’insegna di un tempo splendido, alle due del mattino del 4 giugno il cielo si coprì e al mattino imperversò una violentissima bufera che si dissolse, lasciando dietro di sé un cielo limpidissimo, due ore dopo il termine del “transito”.

Il povero Le Gentil cadde in preda alla depressione e soltanto dopo molti giorni riuscì a scrivere il fallimentare resoconto della spedizione da inviare all’Accademia a Parigi. Il suo morale non fu sicuramente sollevato dall’aver appreso che a Manila, la sua prima destinazione, il tempo era stato splendido. Al danno, poi, si aggiunse la beffa perché Le Gentil, una volta giunto a Parigi, scoprì che alcuni parenti approfittando della sua assenza durata più di undici anni, avevano iniziato le procedure legali per farlo risultare disperso e per dividersi le proprietà.

Fa piacere, comunque, sapere che Le Gentil, dopo queste disavventure, si sposò ed ebbe una figlia e, secondo l’astronomo Cassini, la vita famigliare gli fece dimenticare tutti i dispiaceri del passato. Le Gentil morì nel 1792, ventitré anni dopo il “transito”.

L’abate Chappe, che già era stato in Siberia in occasione del “transito” del 1761, partì da Parigi nell’estate del 1768, con destinazione San José del Cabo in California (allora territorio del Messico). Il suo viaggio durò in tutto otto mesi e la base delle operazioni doveva essere una missione spagnola. Arrivato però alla missione, apprese che la zona era colpita da una malattia epidemica, probabilmente tifo, che aveva decimato un terzo della popolazione.

Con soli pochi giorni a disposizione per scegliere una sistemazione alternativa, Chappe temeva che il rischio sarebbe stato quello di perdere il “transito” del tutto e decise, confidando nella robusta costituzione fisica dei suoi uomini, di rimanere a San Josè. Le osservazioni del “transito” furono impeccabili, ma purtroppo subito dopo il verificarsi del fenomeno si registrò nel villaggio una recrudescenza della malattia e due giorni dopo undici uomini della spedizione si ammalarono. Anche Chappe contrasse la malattia, ma continuò a lavorare senza sosta fino al 1 agosto 1769, giorno in cui morì a 41 anni di età. A causa dell’epidemia il 75% della popolazione locale morì e della spedizione restarono solamente due superstiti, che riportarono in Francia il diario di osservazione di Chappe.

La spedizione di Pingré a Santo Domingo, rispetto a queste epopee, fu una trasferta di ordinaria amministrazione. Il “transito” fu osservato con successo e il de Fleurieu, collega di Pingré, rilevò indipendentemente da Pingrè tempi che differivano fino a 9 secondi, il che rimarcava una volta di più l’effetto dell’osservatore sulla misura del fenomeno.

Il direttore dell’osservatorio di Vienna, il padre gesuita Maximilian Hell, fu invitato dal re di Danimarca e Norvegia ad osservare il “transito” di Venere dalla località di Vardo, sulla costa artica della Lapponia, a 70° di latitudine Nord.

Il “transito” di Venere avveniva attorno alla mezzanotte, ma data la latitudine del luogo il Sole non tramontava mai.

Il giorno del “transito” un cielo nuvoloso faceva temere il peggio, ma il Sole emerse dalle nuvole per tutta la durata del fenomeno. La notizia fu comunicata prontamente a Vienna ma il viaggio di ritorno fu lunghissimo, durò infatti 27 mesi.

L’astronomo Lalande, nel frattempo, ansioso di conoscere i dati per effettuare nuovi calcoli, tempestò Hell di richieste che non vennero mai esaudite. Iniziò a serpeggiare il dubbio che Hell non si fidasse dei suoi risultati e volesse confrontarli con quelli degli altri astronomi prima di pubblicarli.

Sotto queste pressioni padre Hell non attese il ritorno in Austria e pubblicò i suoi risultati mentre era di passaggio in Danimarca, dove rimase ospite per un certo periodo della locale Accademia delle Scienze. Questo fece svanire i dubbi sulla sua buona fede.

Nessuno parlò più della missione fino al 1835, anno in cui Carl Littrow, successore di Hell presso l’osservatorio di Vienna, trovò il diario originale della spedizione a Vardo. Esaminandolo vide che il diario era pieno di cancellature e correzioni ed i “tempi” del “transito” erano stati riscritti usando inchiostro di diverso colore. Littrow pubblicò un articolo in cui, 43 anni dopo la morte, la reputazione scientifica di Hell fu completamente distrutta.

L’astronomo reale George Airy rivelò che le osservazioni di Hell erano state di una importanza fondamentale e perdere fiducia in esse comprometteva tutte le deduzioni ricavate dal “transito”.

La storia di padre Hell sembrava destinata a rimanere un brutto episodio negli annali di storia della scienza, ma nel 1883 il grande astronomo Simon Newcomb, in visita a Vienna, chiese di poter vedere i diari di Padre Hell che rilesse alla luce delle accuse di Littrow e restando sbalordito. La pretesa presenza di inchiostri di colore differente era perlomeno discutibile, e inoltre molte correzioni erano state apportate nel corso della prima e unica stesura, correggendo l‘inchiostro ancora fresco passandovi le dita.

Newcomb si informò e scoprì che Littrow era fortemente daltonico, per cui non poteva valutare lievi differenze di colore nell’inchiostro usato per scrivere e lo stesso Newcomb dimostrò che le pretese riscritture denunciate da Littrow erano dovute al fatto che molti numeri erano stati ricalcati per renderli più evidenti sulla carta.

La memoria di Hell venne così vendicata e i suoi risultati scientifici tornarono ad essere credibili.

Sul versante inglese, la Royal Society, nel novembre 1767, nominò una commissione con lo scopo di organizzare le spedizioni per l’osservazione del “transito” di Venere.

Si decise di inviare Joseph Dymond e William Wales alla Baia di Hudson in Canada, William Bayley a Capo Nord (Norvegia), Jeremiah Dixon all’isola di Hammerfest, al largo della costa della Norvegia e infine Charles Green nei mari del Sud.

Quest’ultima spedizione catturò di più la fantasia del pubblico.

Il mezzo di trasporto era la nave Endeavour, comandata da James Cook, un uomo di mare molto abile e versato per la matematica. L’astronomo reale Maskelyne compilò con cura le istruzioni per eseguire l’osservazione del “transito” e fece in modo che ogni osservatore prendesse i tempi in maniera indipendente. Voleva infatti evitare che si ripetesse l’inconveniente del 1761. Si verificò, però, una curiosa coincidenza. Mentre, infatti, in tutti i gruppi di osservazione i tempi del “transito” erano leggermente differenti da osservatore a osservatore, i tre astronomi dell’osservatorio di Greenwich avevano fissato esattamente gli stessi istanti senza la minima differenza. Un caso di eccezionale e condivisa accuratezza? Assolutamente no. Dopo qualche indagine, infatti, fu scoperto che uno degli astronomi, quando prendeva il suo tempo, gridava “Ora!” e gli altri due istintivamente fermavano i loro cronometri.

Le idee del tenente di vascello Cook non erano molto precise e l’unico dato certo era l’organizzazione di un punto di osservazione in un qualche luogo dei mari del Sud. Nel frattempo, qualche settimana prima che Cooke salpasse, faceva ritorno da un viaggio nel Pacifico il capitano Samuel Wallis, con l’annuncio di avere scoperto una nuova terra, Tahiti. La descrizione di Wallis era quella di una terra “fatta di sogno e meraviglia, sebbene reale ed esistente: lunghe spiagge e montagne, rinfrescata dalla pura aria dell’oceano, piena di alberi pregiati, valli profonde e cascate splendenti”.

Cooke, affascinato da questa descrizione, decide di partire alla volta di Tahiti.

La nave salpò nell’agosto del 1768 da Plymouth per il primo dei viaggi che avrebbero reso Cooke una celebrità in tutta l’Inghilterra. Dopo cinque settimane di navigazione l’Endeavour si fermò a far provviste all’isola di Madeira. Fra le provviste Cooke aveva sempre cura di imbarcare grandi quantità di frutta fresca, il cui consumo evitava l’insorgere dello scorbuto, una malattia causata da una dieta prolungata priva di vitamina C. La malattia ha un esito mortale e probabilmente lo scorbuto fece più vittime in mare delle guerre e delle tempeste. Vasco da Gama, nel suo viaggio attorno al Capo di Buona Speranza nel 1497, perse un centinaio dei suoi 160 uomini proprio a causa dello scorbuto e Anson, nel suo giro intorno al mondo nel 1740-44, perse duecento dei suoi quattrocento uomini.

Fu il medico di bordo James Lind a intuire e a sperimentare, fin dal 1747, che la somministrazione di arance e limoni fosse il vero rimedio contro lo scorbuto, al contrario di molti presunti rimedi del tutto inutili (elisir di vetriolo, aceto, misture di aglio e senape …). Purtroppo Lind era molto giovane e di rango non elevato, e le sue intuizioni furono oscurate dalla supponenza di medici molto noti e influenti. Solo nel 1795 sir Gilbert Blane avrebbe convinto i vertici della Marina a somministrare dosi giornaliere di succo di limone agli equipaggi dando così a Lind, morto l’anno precedente, un riconoscimento postumo alla originalità della sua idea.

Possiamo immaginare che Cooke fosse al corrente di queste sperimentazioni non ancora ufficializzate, e comunque la dieta a bordo delle sue navi era originale per l’epoca. Oltre alla frutta fresca, non sempre disponibile, Cooke faceva imbarcare una quantità di barili di crauti e di cipolle cotte.

Tahiti fu avvistata la mattina dell’11 aprile 1769, con un margine sufficiente di tempo per preparare l’osservazione. Durante tutto il mese che precedette il “transito”, l’astronomo Green portò avanti una complessa serie di osservazioni astronomiche per verificare il funzionamento degli orologi e per determinare la latitudine e la longitudine di Fort Venus, la località fortificata di Tahiti dalla quale furono effettuate le osservazioni.

Nonostante il cielo molto nuvoloso, proprio il giorno del “transito”, il 3 giugno, la Provvidenza donò a Cooke, a Green e agli altri osservatori una giornata limpida e soleggiata e il “transito” fu osservato nel migliore dei modi, dall’inizio alla fine.

Non tutti, però, erano coinvolti emotivamente in questa affascinante impresa astronomica e infatti mentre astronomi ed ufficiali erano intenti all’osservazione, alcuni uomini dell’equipaggio forzarono la porta del magazzino e rubarono una grande quantità di chiodi. I chiodi rubati erano la moneta di un illecito mercato sessuale fra l’equipaggio e un gruppo di donne di Tahiti le quali, secondo le parole di Cooke “non potevano resistere alla tentazione di possedere chiodi, stoffe e cose simili”. Addirittura i marinai del capitano Wallis erano giunti a schiodare alcune tavole della nave pur di procurarsi la “moneta” necessaria.

L’osservazione fu comunque un gran successo e fu festeggiata come tale, anche se Cooke nel suo diario scrisse che il “fenomeno della goccia nera” si era manifestato pesantemente e inoltre sembrava ci fosse un alone di penombra attorno al pianeta e anche il tremolio dell’atmosfera era stato molto evidente, tutti fattori che diminuivano la precisione dei tempi registrati.

Ognuno osservò in silenzio per non influenzare gli altri e, sempre nel diario di Cooke, leggiamo che i suoi tempi e quelli dell’astronomo Green differivano fino a 20 secondi.

Un mese dopo il “transito”, l’Endeavour lasciò Tahiti per il viaggio di ritorno, che sarebbe durato due anni. In questo viaggio Cooke scoprì le Isole dell’Ammiragliato, poi quelle che, in onore della Royal Society chiamò Society Islands e infine circumnavigò la Nuova Zelanda e sbarcò in Australia.

Purtroppo lo scalo a Batavia fu fatale a causa dell’acqua infetta di cui fecero provvista. L’equipaggio, decimato dalla dissenteria, perse alcuni dei suoi migliori uomini e anche l’astronomo Charles Green morì tra sofferenze atroci.

L’arrivo dell’Endeavour in Inghilterra fu annunciato dai giornali il 15 luglio 1771, tre anni dopo la partenza, e fu accolto con incredulità dato che molti ritenevano la nave dispersa in qualche tempesta tropicale.

Si stima che questo “transito” abbia coinvolto 150 astronomi (alcuni dei quali persero la vita nelle corso delle spedizioni) in 77 stazioni diverse, sparse in ogni angolo del globo. I resoconti delle osservazioni originarono più di seicento memorie e articoli pubblicati.

Come per il “transito” precedente, si riscontrò una certa dispersione dei risultati e i calcoli fornirono per l’Unità Astronomica valori variabili fra i 156 e i 149 milioni di km.

Nel 1824, più di cinquant’anni dopo il “transito”, l’astronomo Encke analizzò tutti i dati raccolti e fissò il valore della distanza Terra-Sole in 153.4 milioni di km.

Il valore oggi accettato è pari a 149.57 milioni di km, per cui quello di Encke era considerevolmente più grande.

 

Ø      Il “transito” del 1874

Fra il “transito” del 1769 e quello del 1874 accaddero molte cose dal punto di vista astronomico: fu scoperto un nuovo pianeta, Urano, furono individuati i primi asteroidi e fu inventata la fotografia.

La fotografia, all’epoca del “transito” del 1874, era preferita dai francesi nella forma già antiquata della dagherrotipia, e dagli inglesi e tedeschi nella forma delle più pratiche e sensibili “lastre secche”. In ogni caso il nuovo mezzo di indagine fu utilizzato per lo studio del “transito” di Venere.

Un’altra novità tecnologica era costituita dall’eliometro, uno strumento perfezionato dall’ottico tedesco Repsold e che consentiva l’accurata misura delle distanze angolari, in questo caso la distanza del centro di Venere dal centro del Sole.

Un ulteriore mezzo di indagine che iniziava ad affacciarsi sulla scena astronomica era lo spettroscopio, che ebbe fra i suoi pionieri l’astronomo italiano padre Angelo Secchi.

In Inghilterra l’astronomo reale George Biddell Airy era un fervente sostenitore dell’osservazione dei “transiti” di Venere quale mezzo per calcolare la parallasse solare (dalla quale risalire all’unità astronomica), al contrario di altri astronomi che avevano iniziato a utilizzare metodi alternativi, fra cui la misura della parallasse di Marte all’opposizione.

Comunque sia, Airy era convinto che il progresso tecnico degli strumenti e le nuove tecniche di calcolo avrebbero consentito di ottenere un valore dell’Unità Astronomica molto più esatto rispetto ai “transiti” del secolo precedente e pertanto si adoperò affinché venissero messi a disposizione quei mezzi tecnici e finanziari per poter affrontare il “transito” in modo adeguato.

Per il “transito” del 1874 le spedizioni furono numerosissime e non risulta che nessuna di esse si sia trasformata in un’odissea per i partecipanti, al contrario di molti viaggi affrontati nel secolo precedente dagli astronomi.

Da parte inglese furono installate tre stazioni osservative nelle isole Hawaii, due all’isola di Kerguelen (nell’Oceano Indiano meridionale) e una in Egitto.

La bandiera degli Stati sventolava sopra le stazioni di Vladivostok, Pechino e Nagasaki nell’emisfero nord, mentre in quello sud sopra alle stazioni di Kerguelen, in Tasmania (due stazioni), in Nuova Zelanda e alle isole Chatham. Il personale di ogni stazione era costituito da un capo missione, un astronomo, un capo fotografo e due assistenti fotografi.

La Germania organizzò sei spedizioni che si distinsero per l’enorme mole di attrezzature al seguito. Essendo difficile privilegiare una tecnica o uno strumento rispetto ad altri, gli astronomi tedeschi erano in grado di applicare tutti i principali metodi proposti, visuali e fotografici, per l’osservazione del “transito”.

Le sei stazioni francesi, divise in boreali e australi, erano situate a Pechino, Yokohama, Saigon, all’isola di Campbell, all’isola di Saint-Paul e Nomea.

Il personale francese consisteva complessivamente di oltre cinquanta persone fra astronomi, fisici e tecnici.

La Russia, sotto la direzione di Otto Struve, dislocò 27 stazioni d’osservazione, situate principalmente in Siberia, e tutte dotate di strumenti di buona qualità.

Fra le tante spedizioni ricordiamo con orgoglio quella italiana, organizzata da Pietro Tacchini con il sostegno di padre Secchi.

La spedizione italiana fece un uso estensivo delle osservazioni spettroscopiche (all’epoca gli astronomi del nostro paese erano all’avanguardia nello studio e nell’utilizzo di queste nuove tecniche di osservazione).

L’analisi ufficiale dei dati ricavati dalle osservazioni fu eseguita da Airy per le stazioni inglesi, mentre altre elaborazioni furono a cura del francese Puiseux.

Anche in questo “transito” le differenze fra le misure effettuate offrivano valori dell’Unità Astronomica differenti fra loro di circa 1 parte su 18, un errore non trascurabile e sommamente più grande della parte su 500 ipotizzata da Halley.

Chi aveva sperato di ottenere dalla fotografia un sostanziale miglioramento rimase dunque deluso e molte riprese fotografiche del “transito” furono considerate un fallimento, principalmente a causa del fatto che all’esame dei negativi al microscopio il bordo del Sole appariva indistinto, e pertanto rilevare gli istanti esatti dei “contatti” geometrici era impossibile.

 

Ø      IL “TRANSITO” DEL 1882

Il successivo “transito” del 1882, l’ultimo avvenuto prima del prossimo dell’8 giugno 2004, fu abbastanza sfavorevole per l’Europa, perché fu possibile osservare solo l’ingresso di Venere al tramonto del Sole.

Anche dal punto di vista della determinazione dell’Unità Astronomica il “transito” si presentava in generale poco favorevole, essendo ridotta la massima differenza sulla durata del “transito” osservato dagli estremi del globo terrestre.

A Parigi nel 1881 fu indetta una conferenza internazionale per preparare l’osservazione del “transito”. Parere quasi unanime e sfavorevole fu espresso nei confronti delle tecniche fotografiche, dal momento che le esperienze effettuate durante il “transito” del 1874 non erano state molto felici.

Gli undici Paesi che parteciparono alla conferenza (Argentina, Brasile, Francia, Germania, Gran Bretagna, Spagna, Cile, Danimarca, Olanda, Messico e Portogallo) si impegnarono di approntare una o più stazioni osservative. Non presero parte al convegno Stati Uniti, Austria e Italia.

Inutile dire che anche questo “transito” non fu risolutivo per la determinazione dell’Unità Astronomica.

In Europa, nei primi giorni di dicembre, il maltempo colpì gran parte del continente e molti osservatori non riuscirono a fare altro che lamentarsi delle condizioni atmosferiche proibitive.

A Milano il cielo era nuvoloso e il grande Giovanni Virginio Schiaparelli riuscì a vedere il pianeta quando si trovava già in parte sul Sole. L’astronomo notò inoltre che le ondulazioni del lembo solare non erano minori di 5”, e questo fatto lo indusse a non superare i 50 ingrandimenti.

Il belga Houzeau fu il primo a pubblicare i calcoli di questo “transito” e trovò che la distanza Terra-Sole era pari a 23147 raggi terrestri, con un errore probabile di ±218 raggi terrestri, pari ad un errore di circa 1 milione di chilometri su 147 milioni. Molti altri resoconti contenevano risultati analoghi.

 

Ø      EXCURSUS MATEMATICO

L’interesse fondamentale che rivestiva l’esatta definizione dell’Unità Astronomica deriva dal fatto che, grazie alle leggi di Keplero, è possibile risalire alle distanze degli altri pianeti.

Innanzitutto assumiamo come unità (1 u.a.) la distanza tra Terra e Sole.

L’angolo q misurato da Terra è di 46°,054. Ponendo la distanza Terra-Sole uguale a 1 u.a. troviamo che la distanza Venere-Sole risulta essere 0,72 u.a. e quindi la distanza Terra-Venere è pari a 0,28 u.a. Ora ci serve solo trovare a quanti km corrisponde l’unità astronomica. Per questo calcolo entra in gioco il “transito” di Venere.

I due osservatori sulla Terra dovranno essere a latitudini diverse (quanto più possibile). Supponiamo, ad esempio, che siano distanti l’uno dall’altro 2000 km. I due osserveranno il “transito” in due zone diverse del disco solare, in particolare l’osservatore A vedrà il “transito” in una zona più bassa del Sole (effetto di parallasse) rispetto a B (in questa trattazione useremo un metodo puramente geometrico e non considereremo, come invece detto in precedenza, la diversa durata del “transito” visto dai due osservatori).

Applicando le leggi sui triangoli simili si ricava quanto segue:

-         l’altezza del triangolo maggiore è la distanza tra Venere ed il Sole (0,72 u.a.);

-         l’altezza del triangolo piccolo è la distanza tra la Terra e Venere (0,28 u.a.).

 

Nei triangoli simili la Base divisa per l’Altezza è uguale in entrambe e quindi:

S: 0,28=S: 0,72

Poiché la distanza dei due osservatori è nota (2000 km) troviamo la distanza delle due tracce del transito sul disco solare, pari a 5142,86 km. Se proiettassimo il Sole ottenendo un disco di 16 cm ricaveremmo una separazione di 0,059198 cm. Sempre con la formula applicata precedentemente troviamo:

Diam. Apparente Sole : 0,059198 = Diam.Vero Sole : 5142,86

da cui risulta un diametro reale del Sole di 1.390.000 km. Questo dato, prima dei calcoli sul “transito”, agli astronomi non era noto!

Finalmente possiamo determinare l’Unità Astronomica.

Da Terra il diametro angolare del Sole è di circa mezzo grado (0°,534) e di conseguenza il raggio apparente è di 0°,267. Il raggio reale del Sole è 695.000 km e la distanza Sole-Terra è 1 u.a.

Utilizzando le note relazioni di trigonometriche troviamo:

Tangente(0°,267)=695.000km :1 u.a.

da cui

1 u.a. = 695.000km : tan(0°,267)= 149.140.000 km.

Il risultato ottenuto è la nostra misura, straordinariamente simile alla misura adottata di 149.600.000 chilometri.

Ora, grazie in particolare alla terza legge di Keplero, possiamo trovare le distanze del sistema solare.

La legge afferma che “I periodi orbitali dei pianeti, elevati al quadrato, sono proporzionali al cubo dei semiassi maggiori delle rispettive orbite”. Tradotto in formule:

(periodo)2 = k.(semiasse maggiore orbita)3

Facendo un rapporto tra i dati relativi alla Terra e quelli dei singoli pianeti (consideriamo per esempio Marte) troviamo la distanza dal Sole di ogni pianeta.

(semiasse magg. Marte )3 =[ (semiasse magg. Terra) 3 : (periodo terra) 2]*(periodo Marte) 2

da cui

semiasse dell’orbita di Marte=1,52 u.a.

e così per tutti gli altri pianeti.

 

Ø      CONSIGLI PER L’OSSERVAZIONE

Fin dalla prima mattina dell’8 giugno il Sole sarà “eclissato” da Venere. Il pianeta, infatti, transiterà sul disco solare producendo un piccolo dischetto nero appena visibile ad occhio nudo. Il “transito” durerà parecchie ore ed è osservabile, dall’Italia, nella sua interezza. Per la sua osservazione possiamo usare diversi metodi ma in ogni caso devono essere utilizzati opportuni filtri per proteggere gli occhi.

Se si prevede di osservare il “transito” ad occhio nudo, un vetro da saldatore è sufficiente purché si osservi il disco solare per pochi minuti consecutivamente. Ad occhio nudo l’ombra di Venere apparirà come se osservassimo un dischetto di 3 mm di diametro da una distanza di circa 10 metri. In teoria questo particolare è appena percettibile dal nostro occhio, ma il contrasto con la luminosità del Sole aiuterà nell’individuazione dell’ombra, osservabile nella parte inferiore del disco con un moto da sinistra a destra.

Con un piccolo binocolo bisognerà premunirsi di appositi filtri (il vetro da saldatore e le diapositive non saranno sufficienti) da porre davanti agli obiettivi. Ne esistono di vari tipi. Il più economico è un filtro in Mylar o in Astrosolar. Questo materiale, abbastanza delicato, si presenta come una sottilissima pellicola argentea. Può essere tagliato e adattato ad ogni strumento. Lo stesso tipo di filtro può essere adattato ad un teleobiettivo per poter riprendere l’evento. Serve una focale di almeno 500 mm per rendere ben fotografabile l’ombra. Con una pellicola da 100 asa (meglio una pellicola per diapositive) saranno sufficienti tempi da 1/125 a 1/30 di secondo a f/11 (utilizzando i filtri descritti in precedenza). Conviene comunque fare un’esposizione più lunga ed una più breve. Per fotografare la “goccia nera” serviranno focali molto più lunghe (almeno 4 metri) con conseguente aumento dell’influenza della turbolenza atmosferica (seeing). Si eviti di fotografare con pellicole meno sensibili e di usare tempi brevi per evitare il filtro, ne andrebbe della propria sicurezza e del buon funzionamento della macchina fotografica (rottura dell’otturatore, surriscaldamento del pentaprisma etc..).

Per le osservazioni al telescopio si possono adottare due metodi sicuri. Come per i binocoli e per le macchine fotografiche, si può procurare un filtro da porre davanti all’obiettivo. Un metodo molto semplice è anche quello di proiettare l’immagine del Sole su di un cartoncino bianco. Con questo metodo non c’è bisogno di alcun filtro. Attenzione, però, a non avvicinare l’occhio all’oculare!!! Ricordarsi, in ogni caso, di tappare il cercatore.

Un’osservazione al telescopio permette l’osservazione dettagliata di molti eventi. Innanzitutto potremo osservare i contatti dell’entrata e dell’uscita. Altro fenomeno interessante è la cosiddetta black drop (goccia nera), un fenomeno legato alle condizioni di osservazione. Già nell’Ottocento, infatti, si è dimostrato che questa “goccia” dipende dal seeing (in condizioni di buon seeing il legamento si riduce) e dallo strumento (con telescopi di 15-20 cm di diametro l’”effetto goccia” non dovrebbe essere visibile). Può essere interessante osservare invece il “transito” con strumenti di diverso diametro e vedere le differenze nelle dimensioni del legamento (magari due telescopi identici, con gli stessi ingrandimenti, ma diaframmati in maniera diversa). Per quel che riguarda gli ingrandimenti, l’ideale sono circa 100-150x in modo da osservare, con buona definizione, anche dettagli superficiali.
Il problema rimane la determinazione visuale dei tempi. Con i normali orologi, infatti, difficilmente si potrà arrivare ad una precisione migliore di 2 secondi (considerando l’orologio perfettamente sincronizzato, per esempio, con il segnale radio).
Il metodo più semplice potrebbe essere quello di osservare con l’aiuto del cronometro. Facendolo partire ad un’ora prestabilita (magari mezz’ora prima dell’inizio del “transito”) potremmo, mantenendo l’occhio all’oculare, rilevare i parziali.
Tra il primo contatto ed il secondo (ed anche tra il terzo ed il quarto) passano circa venti minuti e quindi abbiamo il tempo di registrare il tempo rilevato. Dall’entrata all’uscita (secondo e terzo contatto) passano però parecchie ore e sarà quindi opportuno risincronizzare il cronometro (circa mezz’ora prima dell’ora prevista per l’uscita) in modo da evitare che si accumuli troppo errore. Per rendere le osservazioni quanto più imparziali sarebbe meglio disattivare eventuali suonerie. Molti altri metodi potrebbero dare risultati molto precisi, come, per esempio, riprendere l’evento avendo la possibilità di inserire un segnale orario nel video (o nel file se usiamo un computer).

 

Ø      EPILOGO

Nella direzione della determinazione delle dimensioni del sistema solare, un grosso passo in avanti fu compiuto nel 1958 con la grande antenna radar da 26 metri di diametro installata al MIT negli Stati Uniti, cronometrando il tempo di ritorno di un segnale radio diretto verso Venere e riflesso verso la Terra dal pianeta.

Queste misure inaugurarono una nuova era nell’astronomia di posizione.

Uno dei primi risultati maggiormente consolidati fu pubblicato nel 1961, e si stimava per l’Unità Astronomica il valore di 149.599.000 km con un probabile errore contenuto in +/- 1500 chilometri.

I grandi sistemi radar, finanziati dai capitali messi in campo per combattere la Guerra Fredda, continuarono a produrre misure e, nel 1964, i risultati erano oramai consolidati.

La International Astronomical Union adottò per l’Unità Astronomica il valore di 149.600.000 km che, nel 1976, fu portato a 149.597.870, finalmente con la precisione sognata da Halley tanti anni prima.

Giova ricordare che con l’avvento dell’era spaziale e dei viaggi interplanetari effettuati dalle sonde, il problema delle dimensioni del sistema solare da teorico o accademico è diventato un problema eminentemente pratico dal punto di vista della navigazione spaziale.

 

Concludiamo con alcune curiosità. Sappiamo per certo che solo due persone hanno assistito al “transito” del 1639.

Non più di poche centinaia hanno invece osservato i “transiti” del 1761 e 1769, mentre quelli del 1874 e del 1882 ebbero una platea di decine di migliaia di persone.

I “transiti” del 2004 e 2012, grazie ai mezzi di comunicazione, saranno visti probabilmente da centinaia di milioni di persone e molti seguiranno il fenomeno alla televisione, comodamente seduti nelle loro case.

Probabilmente sarà uno dei fenomeni astronomici più osservati della storia.

Qualcuno potrà pensare che il “transito” di Venere sia motivo di interesse solo per gli astronomi o gli appassionati, ma la storia della sua osservazione è la storia stessa dell’umana e insaziabile curiosità, che spinse i nostri antenati ad affrontare viaggi incredibili per osservare una piccola macchia scura attraversare il Sole, una macchia che offriva la possibilità di rivelarci le vere dimensioni del sistema solare.

 

Ø      DATI DEL “TRANSITO”




Primo contatto (
a) ore 7:20:09

Secondo contatto (
b) ore 7:39:45

Terzo contatto (
c) ore 13:04:24

Quarto contatto (
d) ore 13:23:37

 

I dati sono riferiti a Ravenna ed i tempi sono calcolati considerando l’ora estiva.

 

 


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