Le costellazioni dello zodiaco:
TORO
di Annalisa Ronchi

 


La vacca divina e gli Dei dei serventi.
Immagine incisa all’internodel pannello di fondo
del primo sacrario di Tutankhamen (1323 a.C.)

 

Sotto i piedi dell’Auriga sta il Toro
robusto, fornito di corna minacciose;
la sua testa è cinta da numerose stelle

Cicerone, De Natura Deorum

Il gruppo di stelle che formano il Toro si trova in una delle regioni più ricche del cielo, dove brillano stelle come Castore e Polluce dei Gemelli, Procione del Cane Minore, il gigante Orione, ai piedi del quale avvampa l’abbagliante Sirio, del Cane maggiore.

Canis major contiene molte stelle brillanti che lo rendono una delle costellazioni più facilmente visibili: la sua stella più brillante, Sirio, dal greco “sfavillante”, una stella bianca distante 8,7 anni luce è la più luminosa dell’intero cielo.

Canis minor, a parte Procione, una stella bianco-gialla distante 11,3 anni luce, contiene pochi oggetti interessanti.

Castore, dei Gemelli, distante 45 anni luce, è in realtà un stella multipla, formata da tre coppie di stelle.

Polluce è la stella più brillante della costellazione dei Gemelli, è una gigante arancio distante 85 anni luce.

Orione è la costellazione più grande e brillante del cielo, piena di oggetti interessanti. È delimitata principalmente da sette stelle molto luminose, come la supergigante rossa Betelgeuse, distante da noi 310 anni luce, e la supergigante bianco-azzurra Rigel, distante 910 anni luce, oltre alle tre stelle della cosiddetta “Cintura di Orione”, al di sotto della quale si trova la famosa Nebulosa di Orione, M42, insieme ad altri splendori quali la Nebulosa Testa di Cavallo o la Nebulosa Fiamma.

È utile ricordare che l’unità di misura astronomica “anno luce” è la distanza percorsa da un raggio di luce in un anno. La luce si muove con un velocità di 299.792,458 chilometri al secondo, per cui un anno luce equivale a 9,461 milioni di milioni di chilometri.

In ottobre, subito dopo il tramonto, il Toro sorge a est, culmina in pieno sud a dicembre e gennaio, discendendo poi verso ovest fino a tramontare definitivamente in aprile.

La nascita di questo asterismo è molto antica, risale ai Sumeri che l’associavano al grande eroe Gilgamesh, e chiamavano la costellazione GUD.AN.NA (toro del cielo).

Sappiamo con certezza che Gilgamesh fu un giovane re di Uruk, appartenente alla prima dinastia (circa 2600 a.C.). La sua opera più famosa fu la costruzione delle mura di Uruk, come è menzionato nel poema “l’Epopea di Gilgamesh” e confermato da un successivo re della città, Anam, il quale, parlando della ricostruzione delle mura, le definisce un’antica opera di Gilgamesh.

Il poema, formato da 12 tavolette di argilla trovate durante il secolo scorso a Ninive, tra le rovine del tempio di Nabu e della biblioteca di Assurbanipal, si apre con una breve dichiarazione sulle imprese e sulle fortune dell’eroe, un prologo che presenta Gilgamesh come un grande saggio e sapiente, come colui che fece un lungo viaggio alla ricerca dell’immortalità e che, esausto e rassegnato, tornò a casa e scrisse su una tavoletta tutto ciò che aveva fatto e sofferto. A questa presentazione fa seguito la storia vera e propria.

Nella Tavoletta V, Gilgamesh ed il suo amico Enkidu uccidono un terribile gigante, Humbaba, quindi tornati a Uruk si lavano e indossano abiti puliti e una fusciacca. La bellezza di Gilgamesh colpisce la dea Ishtar, l’impetuosa e aggressiva dea babilonese della fecondità e dell’amore, nonché protettrice delle meretrici e dei luoghi dove si beveva birra, ma Gilgamesh non è tentato dalla dea ed elenca, con disarmante franchezza, le sventure che hanno colpito i suoi precedenti amanti, trattati dalla dea con estrema crudeltà, uccisi o torturati oppure trasformati in rane o in lupi.

Ishtar, non abituata a sentir parlare con tanta sincerità, salì nell’alto dei cieli e chiese al padre Anu (il dio del cielo) il Toro del Cielo per distruggere Gilgamesh. Anu tentò di placarla, ma Ishtar si infuriò tanto da minacciare di rompere i cancelli dell’oltretomba e di lasciare liberi i morti.

Le sue terribili minacce ebbero effetto sul padre, ed essa rientrò a Uruk tenendo in mano le redini del Toro del Cielo. Questo Toro era, per i popoli mesopotamici, il Toro del Paradiso.

Davanti al fiume, il Toro sbuffò e nella terra si aprì un crepaccio in cui precipitarono centinaia di giovani guerrieri di Uruk. Sbuffò di nuovo e si aprì un altro crepaccio in cui caddero altri guerrieri. Quando sbuffò per la terza volta, un ulteriore crepaccio si aprì ed anche Enkidu vi cadde dentro. Prontamente balzò fuori, afferrò la coda del Toro per distrarlo, permettendo a Gilgamesh di affondare la sua spada nell’enorme collo. Quindi Enkidu squartò il toro e ne gettò i pezzi in cielo, contro Ishtar. Tale smembramento forse spiega come tutte le mappe stellari, anche le più antiche, rappresentano la costellazione del Toro solo con la parte anteriore dell’animale.

costellazione del Toro, Repubblica di San Marino, 1969

Il muso dell’animale è formato dall’ammasso stellare a forma di V noto come Iadi; Il suo occhio rosso e scintillante è costituito dalla stella Aldebaran; le punte delle lunghe corna sono rappresentate da b (beta) e z (zeta) Tauri. Vicino a z (zeta) Tauri esiste M1 (NGC 1952), la Nebulosa Granchio, della quale si conosce esattamente l’età. Gli astronomi di corte cinesi riportarono nelle loro cronache di una “stella ospite” apparsa il 4 luglio 1054. La stella brillò così luminosa da poter essere osservata in pieno giorno per ben 23 giorni. M1 deriva dall’esplosione di una supernova.

Il dorso del Toro è rappresentato da un altro ammasso stellare, il celebre ammasso delle Pleiadi.

La gigante rossa Aldebaran, distante da noi 68 anni luce ha un diametro 46 volte maggiore di quello del Sole. Il nome Aldebaran pare derivi dall’arabo Al Dabaran, che significa “l’inseguitrice”, infatti la stella “segue” il gruppo delle Pleiadi.

Gli Inuit conoscono Aldebaran, come Nanurjuk, “l’orso polare”, inseguito dai cacciatori, Ullaktut, che, dispersi durante una caccia, furono trasferiti insieme nel cielo, rappresentati dalle tre stelle della cintura di Orione.

Il toro, o più generalmente il bovino, nelle regioni indo-mediterranee, rappresenta gli dei celesti a causa della fecondità infaticabile e incontenibile di Urano, dio del cielo, analoga alla sua.

Simbolo della forza creatrice, il toro ha rappresentato il dio El sotto forma di una statuetta di bronzo, destinata ad essere fissata alla sommità di un bastone o di un’asta: insegna portatile simile a quella del Vitello d’Oro. I prototipi di questi emblemi religiosi risalgono all’inizio del terzo millennio avanti Cristo. Il culto di El, praticato dai patriarchi ebraici immigrati in Palestina, fu proscritto da Mosè, ma esso continuò ad esistere fino al regno di Davide, come attestano le statuette di toro sacro, influenzate dall’arte egizia, che risalgono a quella data. Tali statue sono disegnate sulla paletta del faraone Narmer, si trovano al Museo del Cairo, sull’insegna di guerra di Mari, nella Siria mesopotamica e se ne sono ritrovate anche sugli altopiani dell’Anatolia, risalenti all’epoca proto-ittita.

Anche il dio vedico Indra è paragonato a un toro. Gli inni vedici celebrano la vacca, intesa qui nel senso simbolico generale del bovino, come una divinità:

“la Vacca ha danzato sull’oceano celeste e ci ha portato i versi e le melodie...
la Vacca ha per arma il sacrificio e dal sacrificio è nata l’intelligenza...
la Vacca è tutto ciò che è, Dio e Uomini, Asura e Profeti...
in Essa risiede l’Ordine divino, la Santità, l’Ardore cosmico.
Sì, la Vacca fa vivere gli Dei, la Vacca fa vivere gli Uomini”

Associata all’Ardore cosmico, essa è il calore che anima ogni vivente. Il bovino si ricollega così al complesso simbolico della fecondità: corno, cielo, acqua, fulmine, pioggia. Autran ha notato che, in accadiano, "rompere il corno" significa corrompere la potenza. Ma, senza essere infranta, questa potenza può essere controllata e indirizzata.

Il toro è l’emblema di Indra ma anche quello di Shiva. Come tale è bianco, nobile, la sua groppa evoca una montagna nevosa. Rappresenta l’energia sessuale: ma cavalcare il toro, come fa Shiva, vuol dire dominare e trasformare questa energia per la sua utilizzazione Yogica e spirituale. Il toro di Shiva, Nand", rappresenta la giustizia e la forza, il Dharma, l’ordine cosmico e per questa ragione è detto insondabile o mistico.

Il toro vedico Urishaba, è il “sostegno del mondo della manifestazione”, colui che, dal centro immobile, mette in movimento la ruota cosmica. Nella leggenda esso ritira uno dei suoi zoccoli dalla terra al termine di ciascuna delle quattro età: quando li avrà ritirati tutti, le pietre del mondo saranno distrutte. I Sioux attribuiscono lo stesso ruolo al bisonte primordiale.

Anche presso i popoli altaici e nelle tradizioni islamiche, il toro appartiene al ciclo di simboli-sostegni della creazione, i cosmofori, come la tartaruga. È infatti talvolta posto fra due sostegni sovrapposti: una tartaruga sostiene una roccia, che sostiene un toro, che sostiene la terra... In altre civiltà altri animali, come l’elefante, svolgono lo stesso ruolo.

Incarnazione delle forze ctonie, sotterranee, anche per i numerosi popoli turco-tatari, il toro sopporta il peso della terra, sul dorso o sulle corna.

Il simbolo del toro è anche legato a quello del temporale, della pioggia e della Luna. Nelle culture arcaiche, e ancora oggi fra i Mongoli e gli Yakuti, si riscontra la credenza di un toro acquatico, nascosto in fondo ai laghi e che muggisce prima di un temporale. Il muggito è stato spesso paragonato all’uragano o al tuono, entrambi manifestazioni della forza fecondante.

In Egitto la divinità della Luna era il “Toro delle stelle”, Osiride, raffigurato a volte appunto come un toro. In Persia la Luna era Gaocithra, “conservatore del seme del toro”, poiché si narrava che il toro primordiale deponeva il suo seme nell’astro della notte.

Molte lettere, geroglifici e segni sono in rapporto sia con le fasi lunari che con il toro, le cui corna sono spesso paragonate alla crescita della Luna. Emblematico in questo senso è la prima lettera dell’alfabeto ebraico, Alef, che rappresenta la testa di un toro stilizzata, ed è simbolo della Luna durante la prima settimana.


La lettera Alef dell'alfabeto ebraico

In quasi tutta l’Asia il toro nero è riferito alla morte. In India e in Indonesia esiste l’uso di bruciare il corpo dei principi in un feretro a forma di toro.

Per i Tatari dell’Altai, il Signore degli Inferi è raffigurato sia in una barca nera senza remi, sia in groppa ad un toro nero che cavalca a rovescio. Egli tiene in mano un serpnte o un’ascia a forma di Luna e a lui si sacrificano tori neri.

Nell’Europa del nord il toro era visto più come simbolo di forza.

Presso i Celti un eroe o un re di grande valore militare è spesso chiamato “toro del combattimento”. In Gallia, l’iconografia presenta un toro con tre corna: il terzo corno rappresenta ciò che in Irlanda si chiama Lon Laith, “luna dell’eroe”, una specie di aura sanguigna che sgorga dalla cima del cranio dell’eroe in stato di eccitazione guerriera.

Ma il toro può anche avere la peggio: è la vittima di quello che in Irlanda viene definito il “festino del toro”, prima parte del rituale dell’elezione regale. Si sacrifica l’animale, un poeta (figura molto amata ancora oggi in Irlanda) mangia un po’ di carne, beve brodo a sazietà, si addormenta e in sogno vede il candidato re che deve essere scelto dall’assemblea dei nobili. Anche Plinio, nella sua “Storia Naturale”, parla di sacrificio di tori bianchi a proposito della raccolta del vischio.

All’interno della costellazione del Toro si trovano gli ammassi delle Iadi e delle Pleiadi, entrambi mitiche figlie del titano Atlante.

Le Iadi erano nate dall’unione di Atlante con Etra; a loro fu affidato l’ennesimo figlio di Zeus, Dioniso, trasformato in capretto per nasconderlo dalle ire di Era. Le sorelle lo allevarono nascosto in un grotta sul Monte Nisa e fu proprio qui che Dioniso scoprì il processo di fermentazione che gli fece inventare il vino. Per ricompensarle della loro fedeltà, Zeus pose la loro immagine tra gli astri.

Alcuni sostengono che il loro nome derivi dal greco Uein, piovere, perché la loro apparizione coincideva con la stagione delle piogge autunnali ma si diceva anche che si chiamassero così in quanto sorelle di Iante, giovane cacciatore ucciso da un cinghiale. Il dolore delle fanciulle per la perdita del fratello fu tale che morirono straziate dal pianto e a riconoscimento di tanto amore esse furono trasformate nella “piovosa” costellazione.

Presso gli Inuit le Iadi, sono definite Qimmiit, “il gruppo di cani”.

Le Iadi sono uno degli ammassi stellari più vicini al Sistema Solare. È costituito da circa 200 stelle distanti 150 anni luce e decisamente molto più vecchie ed evolute rispetto alle Pleiadi: la loro età è stata stimata in circa 400 milioni di anni, mentre quella delle Pleiadi è compresa tra i 10 e i 20 milioni di anni.

Ma nessun gruppo di stelle ha mai eccitato la fantasia dell’uomo quanto le Pleiadi: ovunque sono stati orientati templi verso di loro e anticamente, prima che l’anno solare fosse stabilito, l’anno cominciava con la loro levata mattutina e l’inverno con la loro levata serotina. L’anno era quindi diviso in due parti e la riapparizione delle Pleiadi in novembre portava “la festa dei morti”, che si celebra ancora oggi con il nostro Ognissanti, nel celtico All Hallow Eve e nell’anglosassone All Souls Day.

Gli antichi egiziani davano al mese di novembre il nome di Athar-aye, il mese delle Pleiadi, e lo stesso troviamo presso i caldei e gli israeliti.

La medesima divisione dell’anno si trova anche presso gli abitanti della Polinesia, i quali ad una metà dell’anno danno il nome di Matarii i Nia, le Pleiadi Sopra, e all’altra metà Matarii i Raro, le Pleiadi Sotto. Ma persino i Maia, gli Aztechi e i nativi del nordamerica usavano simili ripartizioni.

Le Pleiadi erano chiamate così presso i popoli mediterranei in quanto figlie del già nominato Atlante e della ninfa Pleione. Se ne nominavano sette, ma solo sei potevano essere viste facilmente e questo fu spiegato in vari modi, ovviamente molto fantasiosi. In una versione, sei sorelle si unirono con Dei immortali, mentre Merope sposò Sisifo, un mortale, e per la vergogna la sua luce è molto tenue. In un’altra interpretazione la Pleiade Perduta era Elettra, la mitica madre di Dardano, il fondatore di Troia. Elettra, non sopportando il dolore di vedere i suoi discendenti trucidati nel sacco di Troia, fuggì sconsolata nel circolo artico, da dove ritorna regolarmente ogni molti anni con i lunghi capelli sciolti dietro di lei in segno di disperazione, rappresentata da una cometa.

Le comete sono corpi inconsistenti, un miscuglio di gas gelati e di polveri, che girano attraverso il sistema solare su orbite allungate, tornando ad avvicinarsi al Sole a intervalli che vanno da pochi anni a molte migliaia di anni. Si ritiene che agli oscuri bordi esterni del sistema solare esista una nube di miliardi di comete, la nube di Oort. L’influsso gravitazionale di stelle di passaggio spinge le comete su nuove orbite, che le portano verso il Sole, dove diventano visibili a noi come splendenti apparizioni spettrali. Quando una cometa è lontana dal Sole, risplende solo riflettendo la luce solare, ma avvicinandosi alla nostra Stella, la cometa si riscalda, e il ghiaccio sublima. Sotto l’influsso della radiazione solare, i gas cominciano a diventare fluorescenti, similmente al gas in un tubo al neon.

I sette nomi delle sorelle tramandatici dalla mitologia classica sono i seguenti: Tigete, Merope, Alcione, Celeno, Elettra, Asterope e Maia.

Nella mitologia hawaiana il dio del cielo è Lono, che è anche il dio dell’agricoltura, della fertilità e della pace, ed in questa veste era legato alle Pleiadi. Il periodo dell’anno a lui dedicato era il mahahiki, che durava circa quattro mesi ed era annunciato dal sorgere annuale delle Pleiadi al tramonto. In questo periodo Lono ritornava e portava con sé le piogge fertilizzanti dell’inverno, mentre tutte le normali attività umane erano sospese per potersi dedicare a sport, giochi, canti e danze hula. Alcune di queste ultime, simbolizzando una copulazione cosmica, avevano lo scopo di eccitare il dio affinché fertilizzasse la terra.

Per i Boscimani le Pleiadi sono le “Stelle dell’aratura” (facendo pensare a un uso calendariale che segnava il tempo della semina).

Gli Inuit conoscono le Pleiadi come Sakiattiak, “l’osso del petto”, mentre i Lapponi in quel gruppo di stelle vedono una vecchia con un branco di cani (Miese-cora).

Nelle pagine di Atene, Esiodo, Pindaro e Simonide, le Pleiadi erano identificate con uno stormo di colombe. Igino nella sua “Poetica Astronomica” narra che Pleione, mentre si recava con le sue figlie in Beozia, fu assalita dal gigante Orione. Le giovani figlie riuscirono a scappare perché Zeus, commosso dalle loro preghiere, le trasformò in colombe. Orione continuò lo stesso ad inseguirle per sette anni, finché cacciatore e uccelli furono trasferiti fra le stelle, dove la caccia continua nelle notti invernali quando le stelle delle Pleiadi percorrono il loro volo siderale verso ovest, inseguite dalla costellazione di Orione.

Le leggende aborigene sono sorprendentemente simili. La maggior parte identifica le Pleiadi con un gruppo di giovani donne che fuggivano dagli indesiderati approcci di un cacciatore, il quale, in alcune versioni, fu castrato come punizione e avvertimento.

Tra i popoli che vivono nel Pitjantjatjara, nel Western Desert, il sorgere delle Pleiadi all’alba in autunno significa che l’annuale stagione degli amori tra i dingo è cominciata. Cerimonie di fertilità sono rappresentate qualche settimana più tardi, per le quali alcuni giovani cuccioli sono selezionati per la festa. In accordo con la leggenda, le Kungkarungkara, le donne ancestrali, allevarono una muta di dingo per proteggersi da un uomo chiamato Njiru (Orione). Egli, malgrado i dingo, riuscì a rapire una delle ragazze (la Pleiade oscura) che morì, pur continuando a seguire le altre. Alla fine le sette donne assunsero la loro forma totemica di uccelli e volarono in cielo, ma, sfidando i loro dingo, Njiru le seguì anche attraverso il cielo.

Trenta secoli fa, i naviganti attendevano, prima di avventurarsi sui mari, la levata primaverile delle Pleiadi, e allo stesso modo, le navi venivano ritirate a secco per l’inverno dopo il loro tramonto autunnale. Ovidio nelle Metamorfosi dice:

Io appresi a condurre le navi col remo;
osservai l’astro piovoso della capra,
e così pure Tigete, le Iadi e l’Orsa

Delle Pleiadi, come già ampiamente detto, ad occhio nudo, si possono vedere sette stelle, mentre con un binocolo, diverse decine. Dell’ammasso, che dista 450 anni luce fanno parte infatti circa 250 stelle, immerse in una debole luminosità, residuo della nube da cui si sono formate, visibile solo nelle fotografie a lunga esposizione.

Una curiosità: nello zodiaco cristiano di Julius Schiller, che aveva sostituito i dodici apostoli ai segni pagani, il Toro era rappresentato da Sant’Andrea.

Se una nuvola gravida di pioggia e dalla forma strana o le ombre che si allungano sulle pendici di un monte possono far nascere in noi il ricordo di un oggetto, di una persona cara o di un animale domestico, proviamo ad immaginare a cosa potevano pensare i nostri antenati, dediti soprattutto alla pastorizia e all’agricoltura, quando osservavano le stelle del firmamento. È così che sono nate le costellazioni, utilizzate come immensi libri su cui ritrovare storia e mitologia del proprio popolo oltre ad un aiuto per vivere. Non servono arnesi costosi per sopravvivere, ma solo la conoscenza che si trova avvicinandosi con umiltà a ciò che ci circonda e ci include.

 

Monografia n.77-2002/4


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