LO SPETTRO ELETTROMAGNETICO
di Mauro Graziani

 

L'astronomia è una scienza (forse l'unica) che non ha quasi per nulla la possibilità di interagire con ciò che costituisce l'oggetto del suo studio.
Se escludiamo i pochi chilogrammi di rocce lunari portate a terra e le meteoriti che occasionalmente cadono sul nostro pianeta, gli astronomi non hanno nessuna possibilità di toccare con mano ciò che sta in cielo.
La totalità o quasi dell'informazione sulla natura e le caratteristiche dei vari corpi celesti viene ottenuta analizzando la radiazione elettromagnetica che da questi proviene. L’insieme di tutte le radiazioni elettromagnetiche prende l’inquietante nome di spettro elettromagnetico. Il termine radiazione non deve spaventare, noi interagiamo quotidianamente con essa, ed i nostri occhi sono in grado di rilevarne solo una piccola parte, quella che noi chiamiamo luce visibile.

È proprio a causa di questa nostra limitata sensibilità che fino alla metà del secolo scorso l’universo era studiato solo attraverso l’analisi della luce visibile.
Oggi la moderna tecnologia ha reso disponibili rilevatori che permettono agli astronomi di scrutare l’universo anche in quelle porzioni dello spettro a cui “siamo ciechi”, permettendo letteralmente di vedere l’universo con occhi nuovi.
Procediamo con ordine. Diamo innanzitutto una definizione sommaria di radiazione elettromagnetica.
Semplificando un po’ le cose possiamo dire che le radiazioni elettromagnetiche sono onde che si propagano nello spazio e sono caratterizzate da due parametri tra loro correlati: la lunghezza d’onda (
l) e la frequenza ovvero il numero di lunghezze d’onda nell’unità di tempo (n).

frequenza e lunghezza d'onda

La relazione che le lega è la seguente:

n = c/l

(dove c è la velocità della luce nel vuoto è 299.792.458 m/s)

Tutte le onde elettromagnetiche quindi hanno la stessa velocità (che è appunto quella della luce) e la luce altro non è che un tipo di onda elettromagnetica.

Un altro aspetto notevole della radiazione elettromagnetica è che l’energia associata ad essa è direttamente proporzionale alla sua frequenza secondo la relazione:

E = hn

dove E è l’energia di un onda elettromagnetica di una data frequenza mentre h è una costante denominata costante di Planck il cui valore è di 6,6x10-34 J*sec (dove J è Joule, unità di misura dell’energia).

Questa equazione ci dice che tanto più una radiazione ha lunghezza d’onda breve (o frequenza più elevata) tanto più l’energia ad essa associata è maggiore.

Un esempio concreto di questo fenomeno lo possiamo notare guardando la fiamma del fornello da cucina, la parte centrale appare bluastra mentre la parte periferica assume un colore rossastro, questo avviene perché la zona periferica della fiamma è più fredda (minore energia) ed emette onde elettromagnetiche di minor frequenza (rosse) rispetto alla zona centrale che è più calda (quindi più energetica) ed emette onde elettromagnetiche a maggior frequenza (blu).

La cosiddetta finestra ottica rappresenta solo una piccola parte dell'intero spettro, il nostro occhio è sensibile alle lunghezze d'onda che vanno dal blu al rosso con particolare sensibilità alla luce giallo-verde (attorno ai 550 nanometri) che, guarda caso, corrisponde al picco di emissione del Sole.

La radiazione visibile possiamo osservarla semplicemente ad occhio nudo o magari aiutandoci con un telescopio, che è essenzialmente un collettore di luce, cioè raccoglie una maggiore quantità di luce rispetto all’occhio nudo.

Analogamente ai telescopi ottici anche gli strumenti usati per captare altri tipi di radiazione elettromagnetica convogliano la radiazione che ci interessa studiare in un rilevatore (che sostituisce il nostro occhio) permettendoci di vedere una radiazione che i nostri sensi non sarebbero altrimenti in grado di percepire. Anche questi strumenti, quindi, a loro modo sono telescopi.

tipologie di onde elettromagnetiche e loro frequenze

Gli astronomi debbono anche tener conto del fatto che l’atmosfera terrestre non è trasparente a tutte le frequenze (per fortuna!..) ma opera degli assorbimenti differenti sulle varie porzioni dello spettro. Da una parte essa risulta completamente opaca per le onde di lunghezza superiore ai 30 metri mentre, dall’altra parte dello spettro essa assorbe praticamente tutte le radiazioni più energetiche (ultravioletti, raggi X e raggi gamma), tant’è che lo studio di queste porzioni dello spettro è possibile solo dallo spazio attraverso satelliti.

In campo astronomico possiamo suddividere lo spettro elettromagnetico essenzialmente in cinque zone:

  1. LUCE VISIBILE (telescopi convenzionali)
  2. RADIO ONDE (radiotelescopi)
  3. INFRAROSSO (telescopi infrarossi)
  4. RAGGI X (satelliti)
  5. RAGGI GAMMA (satelliti)

Esaminiamo una alla volta queste zone, parliamo degli strumenti usati per esplorarle ma soprattutto delle informazioni che si possono ottenere dal loro studio.

 

La luce visibile

La luce visibile è la più intuitiva proprio perché è quella che percepiamo con i nostri occhi.
L'occhio umano risulta sensibile ad una gamma di radiazioni che va dai circa 400 nm (violetto) fino ai 1.000 nm (rosso) di lunghezza d'onda, con un picco di sensibilità attorno ai 550 nm (giallo-verde)

frequenze e colori della luce visibile

I colori che percepiamo rappresentano radiazioni elettromagnetiche di differenti lunghezze.
Gli astronomi indagano questa regione dello spettro attraverso il più classico degli strumenti astronomici: il telescopio. Esso funziona essenzialmente come un raccoglitore di fotoni che permette di catturare più luce rispetto a quella raccolta dal solo occhio nudo.
Basti pensare ad esempio che un piccolo telescopio da 10 cm di diametro raccoglie cento volte più luce rispetto alla pupilla dell'occhio al massimo della sua dilatazione (circa 7 mm di diametro).

Guardando la volta stellata ci accorgiamo che non tutte le stelle sono del medesimo colore, sebbene queste differenze cromatiche spesso non ci appaiano così eclatanti. L'occhio umano infatti in condizioni di bassa illuminazione fa lavorare un tipo di recettori chiamati bastoncelli che, sebbene più sensibili dell'altro tipo di recettori presenti sulla retina (i coni), non permettono una chiara percezione dei colori.

Questo è il motivo principale per il quale rimaniamo delusi quando osserviamo al telescopio una nebulosa o un altro oggetto che in fotografia mostrava colori intensi e sfavillanti, mentre alla visione diretta si presenta tutt'al più con una pallida colorazione verdolina.

Inoltre il nostro occhio non può integrare il segnale (cioè non può accumulare i fotoni che riceve) come fa invece la pellicola fotografica o un sensore digitale, ciò rappresenta un ulteriore svantaggio nella percezione del colore di oggetti poco luminosi. Nonostante questi limiti l'occhio è stato l'unico sensore disponibile fino all'avvento delle lastre fotografiche, che hanno permesso agli astronomi di registrare in maniera obiettiva ciò che mostrava il telescopio.

La regione del visibile è una zona piuttosto ristretta rispetto alla totalità dello spettro. Questa piccola finestra ci permette di vedere le emissioni energetiche di media intensità come quelle delle stelle e delle nebulose formate da gas eccitato.
Scomponendo la luce di una stella nelle sue componenti fondamentali (attraverso un spettrografo o uno spettroscopio) otteniamo uno spettro della zona visibile.

spettro della zona visibile di una stella

Dal suo esame si possono ottenere una grande quantità di informazioni (distribuzione energetica, temperatura, luminosità, composizione chimica, velocità relativa, etc.).

Temperatura e luminosità possono anche essere determinati in maniera più semplice attraverso l'analisi differenziale di alcune porzioni dello spettro visibile isolate attraverso l'utilizzo di appositi filtri.

 

Le onde Radio

L’astronomia radio o radioastronomia scruta il cielo nelle di lunghezza d’onda che vanno dai 3mm ai 30 metri circa. Come già accennato questo limite è dovuto al fatto che la ionosfera è completamente opaca alle lunghezze d’onda superiori ai 30 metri.

Heinrich Rudolf Hertz (1857 - 1894) e James Clerk Maxwell (1831 - 1879)Rispetto all’astronomia ottica convenzionale la radioastronomia è una scienza piuttosto giovane.

Già nel XIX secolo scienziati come James Clerk Maxwell (1831 - 1879) e Heinrich Rudolf Hertz (1857 - 1894) pensavano alla possibilità di ricevere dai corpi celesti altri tipi di radiazione diversa dal visibile.

ritratto di Karl Guthe Jansky (1905 - 1950)Dovremo però aspettare il 1929 per scoprire la prima emissione cosmica nel dominio radio. La scoperta è da attribuire ad un tecnico della Bell Telephone, Karl Guthe Jansky (1905 - 1950), il quale dopo aver costruito un antenna dalla forma piuttosto bizzarra e denominata la giostra aveva cominciato ad investigare le cause di un disturbo che affliggeva le prime comunicazioni radio.

La giostra di Jansky, lavorando sulla lunghezza d’onda di 14,6 metri, scoprì un segnale che non poteva essere di origine terrestre e nemmeno provenire dal Sole perché si muoveva con un moto di tipo siderale, (ovvero come le stelle, quindi dovuto alla rotazione terrestre).

Quello che il caparbio Jansky aveva osservata era l’emissione radio del centro della nostra galassia.

Jansky e la "giostra"
Jansky e la "giostra"

Questa scoperta sancisce di fatto la nascita della radioastronomia, anche se a dire il vero i risultati del lavoro di Jansky furono inizialmente accolti piuttosto tiepidamente dalla comunità scientifica.

A raccogliere il testimone di Jansky sarà qualche anno più tardi un altro americano (di origine olandese) Grote Reber (1911 - 2002) il quale utilizzando un antenna parabolica di 9 metri di diametro da lui stesso costruita, otterrà la prima mappa radio della nostra galassia.

ritratto di Grote Reber (1911 - 2002) nel 1937la prima antenna parabolica di Reber
Grote Reber (1911 - 2002) e la prima antenna parabolica

Dopo la fine della seconda guerra mondiale la radioastronomia conoscerà un rapido sviluppo grazie anche ai notevoli progressi tecnologici avvenuti nel settore radiotecnico durante il conflitto.

Al giorno d’oggi la radioastronomia rappresenta una branca fondamentale dell’astronomia.

Lo strumento del radioastronomo è il radiotelescopio il quale ha spesso (ma non sempre) la forma di una parabola.

Il radiotelescopio con parabola di 32 metri di Medicina (BO).
Il radiotelescopio con parabola di 32 metri di Medicina (BO).

Esso, similmente ai telescopi ottici convenzionali, raccoglie i fotoni radio attraverso la parabola che li convoglia verso un rilevatore in grado di convertire i fotoni radio in impulsi elettrici.
Tutto sommato un radiotelescopio è abbastanza simile alle parabole satellitari presenti nelle nostre case, ma nel radiotelescopio la parabola è decisamente più grande. Basti pensare che il più grande radiotelescopio al mondo (il radiotelescopio di Arecibo) vanta una parabola di ben 300 metri di diametro mentre il più grande telescopio ottico esistente è intorno ai 10 metri.

Arecibo: la conca di 300 metri  di Arecibo Radio Telescope
Arecibo: il disco di 300 metri ((1.000 piedi) ) di Arecibo Radio Telescope

Queste dimensioni titaniche delle si rendono necessarie perché come abbiamo detto, le lunghezze delle radio onde sono molto maggiori di quelle della radiazione ottica.

Dato che la risoluzione di un telescopio dipende dal rapporto tra lunghezza d’onda e diametro ne consegue che un radiotelescopio deve essere molto più grande di un telescopio convenzionale per poter avere la medesima risoluzione. Per lo stesso motivo però la parabola di un radiotelescopio non necessita della stessa precisione di lavorazione degli obiettivi “ottici” tant’è che spesso la superficie della parabola è composta (per diminuirne il peso e la resistenza ai venti) da un reticolato con maglie larghe anche diversi centimetri, l’importante è che la dimensione di queste maglie non sia superiore a ĵ della lunghezza d’onda che vogliamo andare a rilevare.

Se ad esempio vogliamo osservare radiazione radio a 21 cm di lunghezza d’onda la parabola del nostro radiotelescopio non deve avere maglie più larghe di 5,25 cm.

Ma perché utilizzare i radiotelescopi che sono tra l’altro così ingombranti rispetto ai telescopi convenzionali?
Secondo la legge di Plank l’emissione termica della radiazione elettromagnetica ha il suo picco a lunghezze d’onda tanto più brevi quanto più l’oggetto è caldo.
Oggetti con temperature inferiori ai 100° Kelvin (pari a –173°C) non emettono nel visibile, ma nel dominio radio e nel lontano infrarosso. La radiazione radio, contrariamente a quella ottica, è inoltre pochissimo assorbita dalle polveri interstellari.

Basti dire che ciò che sappiamo sulla zona centrale della nostra galassia, che è oscurata nel visibile da grandi quantità di polveri, lo dobbiamo principalmente alle osservazioni radio.

Esistono anche altri meccanismi cosiddetti non termici che producono emissione elettromagnetica nel dominio radio.
Il più noto è la radiazione dell’idrogeno neutro (presente nelle fredde regioni interstellari) alla lunghezza d’onda di 21 cm. Se i nostri occhi potessero osservare il cielo nelle onde radio praticamente non vedrebbero stelle. Le stelle infatti si sono rivelate radiosorgenti piuttosto deboli, possiamo apprezzare l’emissione radio del Sole solo per la sua vicinanza.

Altri oggetti hanno nel visibile un anonimo aspetto stellare ma sono invece potenti radio sorgenti.
Inizialmente erano state denominate radiostelle.
Questi elusivi oggetti, meglio noti oggi come quasar non sono in realtà stelle ma lontanissime galassie nel cui nucleo si nasconderebbe un buco nero, che alimentandosi della materia circostante, rilascerebbe nello spazio enormi quantità di energia. La scoperta dei quasar, delle pulsar ed anche la scoperta della radiazione di fondo a 3°K sono tutte avvenute grazie alla radioastronomia e sono state di fondamentale importanza per la comprensione dell’universo…

Curiosamente sono tutte avvenute quasi per caso, così come l’iniziale scoperta fatta da Jansky sulla sua giostra.

 

L’infrarosso

In questa esplorazione dello spettro elettromagnetico ci avventuriamo ora nella zona infrarossa, collocata nella regione intermedia tra le microonde e la luce visibile. Formalmente essa è compresa tra lunghezze d’onda che vanno dai 0,8 µm (infrarosso vicino) al millimetro (infrarosso estremo).

Posizione degli infrarossi in uno spettro elettromagnetico
Posizione degli infrarossi in uno spettro elettromagnetico

Pur non potendola vedere con i nostri occhi, percepiamo la radiazione infrarossa sotto forma di calore, anzi noi stessi con i nostri 36,5°C di temperatura corporea siamo emettitori di infrarossi.

La scoperta della radiazione infrarossa ha origini relativamente recenti ed è direttamente legata all'astronomia.

Nel 1800 il grande astronomo William Herschel, attraverso un semplice ma ingegnoso esperimento (che spesso riproponiamo alla giornata nazionale dei planetari) scoprì che non tutti i “colori” dello spettro solare scaldavano i filtri per l’osservazione del Sole allo stesso modo.
Egli quindi scompose la luce attraverso un prisma e successivamente, con un termometro, misurò la temperatura delle varie zone dello spettro visibile.

William Herschel e la misurazione della temperatura delle zone dello spettro di luce
William Herschel e la misurazione
della temperatura delle zone dello spettro di luce

Procedendo dalle zone più blu a quelle più rosse si accorse che la temperatura aumentava. La cosa più sorprendente fu quando Herschel (non si sa se per caso o meno) spostò il termometro oltre la zona rossa, in una zona dove non era percepibile radiazione visibile. In tale zona egli misurò valori di temperatura ancora più alti di quelli registrati nella zona rossa.

Era la prima volta che veniva misurata l'emissione infrarossa del Sole. Questi “raggi invisibili” furono battezzati Raggi Calorifici.

ritratto di Macedonio Melloni (1798 - 1854)Fondamentale sarà poi il contributo del nostro connazionale Macedonio Melloni (1798 - 1854), soprannominato il Newton del calore ed inventore della termopila, strumento attraverso il quale egli provò l'esistenza di diversi tipi di raggi calorici, dimostrando anche che si propagano in linea retta e alla velocità della luce.
Queste esperienze lo portarono ad affermare che calore e luce hanno la medesima origine e, come scrisse lui stesso: Ğsi tratta soltanto di colori diversi, alcuni dei quali non vengono percepiti dall'occhio umano ğ.

ritratto di Samuel Pierpont Langley (1834 - 1906)Sarà il fisico americano Samuel Pierpont Langley (1834 - 1906) attraverso il suo bolometro a filo a migliorare e ad estendere ulteriormente la sensibilità strumentale.
Ancora una volta lo spin-off della tecnologia bellica dell'ultimo conflitto mondiale (così come per la radioastronomia) fornirà rivelatori sufficientemente sensibili e maneggevoli da poter piazzare al fuoco di un telescopio.

Il primo rilevatore infrarosso impiegato dagli astronomi fu sviluppato per scopi bellici dai fisici tedeschi i quali sfruttarono le proprietà del Solfuro di Piombo (PbS) che assorbe la radiazione infrarossa fino a 3µm e “risponde” emettendo elettroni in maniera proporzionale alla quantità di radiazione assorbita. Questo sistema non solo è ben cento volte più sensibile del bolometro di Langley, ma anche molto più veloce nella risposta.
Per contro risulta sensibile solo nel vicino infrarosso.

Questi strumenti, dopo esser stati impiegati sugli UBoot e sui carri armati tedeschi per individuare il nemico nell'oscurità, vennero a lungo utilizzati per scrutare il cielo. Solo negli anni ‘70 ad essi si affiancherà una nuova generazione di sensori sensibili alle zone del lontano infrarosso.

È proprio usando i sensori al PbS che gli astronomi californiani Robert B. Leighton (1919 - 1997) e Gerald Neugebauer (1932) ottengono, all’inizio degli anni ’60, la prima mappa del cielo infrarosso riprendendolo alla lunghezza d'onda 2,2 µm attraverso un telescopio in gran parte autocostruito, con uno specchio fatto di alluminio anziché di vetro.

ritratto di Robert B. Leighton (1919 - 1997) ritratto di Gerald Neugebauer (1932)

I sensori, così come gran parte dell'attrezzatura, furono recuperati da residuati bellici.
Dopo sei anni di lavoro i due astronomi riuscirono a mappare il 75 % della volta celeste ed il cielo che si compose sotto i loro occhi apparve molto diverso da quello visibile nell'ottico.

Molte stelle ben visibili al nostro occhio scomparivano mentre altre a noi invisibili apparivano brillare intensamente. Più di 5.000 nuovi oggetti furono identificati. Il loro lavoro fece comprendere alla comunità astronomica l’importanza di questa nuova finestra che si era aperta sull’universo. L’astronomia infrarossa permette agli astronomi di scrutare attraverso le nubi di polveri interstellari (opache alla luce visibile).

Inoltre le protostelle (giovani stelle che stanno per iniziare le reazioni di fusione nucleare), le nubi di gas e polvere cosmica riscaldate dalla radiazione stellare, i pianeti extrasolari ed i dischi circumstellari irradiano principalmente in questa banda.

Nell’astronomia extragalattica l’osservazione infrarossa permette di datare le galassie in base alla quantità di polveri presenti al loro interno.

La spettroscopia infrarossa consente di identificare alcune importanti righe normalmente prodotte a lunghezze d'onda del visibile, che nelle galassie più distanti da noi, a causa dell’effetto Doppler dovuto all’espansione dell’universo, subiscono uno spostamento verso il rosso andando a cadere nella zona infrarossa.

La misurazione di questo spostamento (redshift) permette di risalire alla distanza di queste lontane galassie che noi vediamo oggi così come erano quando la loro luce partì da esse miliardi di anni fa. Sfortunatamente le molecole di vapor d’acqua presenti nell’atmosfera assorbono fortemente la radiazione infrarossa, costringendo gli astronomi ad installare i loro telescopi in siti dal clima molto secco.

Recentemente l’università di Perugia ha installato un telescopio infrarosso da 80 cm nientemeno che in Antartide che, a dispetto di tutto il ghiaccio presente, possiede una atmosfera con pochissima umidità.

Per tutta quella porzione infrarossa di lunghezza d’onda superiore ai 10 µm, l’atmosfera si presenta completamente opaca e le osservazioni sono possibili solo attraverso telescopi installati su satelliti.

 

I raggi X

Andando verso le zone dello spettro elettromagnetico a più alta frequenza (quindi piccola lunghezza d’onda) incontriamo i raggi X. Sebbene invisibili al nostro occhio sono da tutti ben conosciuti visto il loro impiego in medicina.

ritratto di Wilhem Conrad Röentgen (1845 - 1923)Scoperti da Wilhem Conrad Röentgen (1845 - 1923) nel 1895, essi sono rappresentabili come onde di lunghezza compresa tra 100 e 0.02 Angstrom, quindi molto più corte delle onde della radiazione visibile, di conseguenza molto più energetiche.

Questa maggiore energia permette ai fotoni X di attraversare i tessuti molli del nostro corpo che è quindi trasparente ai raggi X fatta eccezione per le ossa che invece, a causa della loro densità, sono sufficientemente opache. Sottoporsi ad una radiografia significa letteralmente farsi una foto ai raggi X. Materiali ad alta densità come il Piombo sono opachi ai raggi X, anche la nostra atmosfera non fa passare questa radiazione, per questo motivo l’astronomia X è molto giovane.

In pratica inizia negli anni ‘60 con l’avvento dell’era spaziale che ha consentito agli astronomi di portare rivelatori e telescopi X sopra l’atmosfera.

La prima osservazione astronomica nei raggi X avvenne nel però nel 1948 quando un gruppo di scienziati americani misurò l’emissione X da parte del Sole. l razzo che portò la strumentazione in quota altro non era che una famigerata V2 tedesca modificata.

Sin dalle prime osservazioni fu subito evidente che l’emissione in banda X da parte del Sole era molto bassa (100.000 volte minore della sua luminosità ottica). Gli astronomi pensarono che se la luminosità X di un oggetto così caldo e vicino era già così scarsa, allora rivelare l’emissione in questa banda di oggetti ancor più lontani sarebbe stato assai arduo. Queste considerazioni fecero scemare l’entusiasmo (e i finanziamenti) della comunità scientifica verso questa nuova frontiera. Sarà la tenacia e la perseveranza di due fisici italiani emigrati negli States, Bruno Benedetto Rossi, più noto come Bruno Rossi (1905 – 1993) e Riccardo Giacconi (1931) a far si che le ricerche in questo settore continuassero. Oggi sono considerati i padri dell’astronomia X.

ritratto di Bruno Benedetto Rossi, più noto come Bruno Rossi (1905 – 1993) ritratto di Riccardo Giacconi (1931)

La loro opera porterà nel 1970 alla messa in orbita del satellite Uhuru, il primo interamente dedicato all’astronomia X e nel 1978 a quella del satellite HEAO-2 (denominato ufficiosamente Einstein), il primo osservatorio orbitale dotato di un telescopio per raggi X.

Ma come funziona e come è fatto un telescopio per raggi X?

Sistema di specchi per catturare i raggi X
Sistema di specchi per catturare i raggi X

Costruire telescopi capaci di mettere a fuoco radiazioni di questa lunghezza d’onda è assai complicato. Le lenti o gli specchi convenzionali non hanno la capacità di deviare tali raggi come invece accade per la luce visibile. Questo perché i fotoni X sono talmente energetici che vengono assorbiti dalla superficie dello specchio anziché riflessi. Si utilizza allora il principio dell’incidenza radente (nota anche come riflessione totale).
Una semplice analogia renderà subito chiaro il concetto. Supponiamo che i nostri fotoni X siano pallottole sparate da una pistola contro una superficie di legno, se questa superficie è perpendicolare alla direzione della pallottola questa si conficcherà nel legno, se invece incliniamo la superficie di un certo angolo rispetto alla direzione della pallottola quest’ultima rimbalzerà contro di essa e la sua traiettoria verrà deviata. Utilizzando quindi specchi parabolici posti quasi parallelamente alla direzione di arrivo dei fotoni X questi potranno essere deviati e focalizzati in punto così come avviene per la luce visibile nei telescopi convenzionali.

Per migliorare le prestazioni di questi specchi ad incidenza radente viene aggiunta poi una seconda superficie riflettente (di forma iperbolica) anch'essa ad incidenza radente che permette di ridurre le distorsioni dell'immagine introdotte dallo specchio parabolico e di ridurre la lunghezza focale dello strumento. Siccome l’angolo tra la superficie dello specchio ed il fascio incidente è molto piccolo, l'area su cui viene raccolta la radiazione X finisce ad essere più piccola dell'area dello specchio, per aumentare l'area di raccolta vengono posti più specchi concentrici, uno dentro l'altro, che mettono a fuoco i raggi incidenti tutti nello stesso punto.

Lavorare la superficie di questi specchi è estremamente difficile. Infatti uno specchio astronomico deve essere lavorato con una precisione migliore della lunghezza d’onda della luce che va a riflettere ed i fotoni X possiedono lunghezze d’onda mille volte minori di quelle della luce visibile. Ne consegue che tali specchi necessitano di una precisione ancora migliore di quella richiesta per i telescopi convenzionali.

Una volta fatti convergere i raggi X nel fuoco del telescopio serve un rivelatore capace di registrare la radiazione ricevuta.

Il più semplice rivelatore è la lastra fotografica, proprio quella usata dai radiologi, la quale però non permette di registrare un segnale digitale che possa essere trasmesso a terra via radio.
I rivelatori che vengono usati sui satelliti sono i rivelatori a microcanali, i contatori proporzionali ed i CCD.

I rivelatori a microcanali sono costituiti da una fettina sottile di un fascio di tubicini di vetro ognuno con dimensione di qualche decina di micron. Ciascun tubicino costituisce uno dei microcanali dove un fotone X, urtando contro le pareti, libera elettroni.

Schema dei rivelatori a microcanali per raggi X
Schema dei rivelatori a microcanali per raggi X

Questi elettroni, sottoposti ad un forte campo elettrico, vengono ulteriormente accelerati lungo il canale e per successive collisioni producono una valanga di elettroni che vengono infine misurati come una corrente. Questo tipo di rivelatori fornisce poca informazione sull'energia del fotone incidente, ma consente di misurarne con accuratezza la posizione.

Nei contatori proporzionali i fotoni X passano attraverso un gas ionizzandone gli atomi.
Gli elettroni liberati vengono accelerati da un campo elettrico ed urtano, a loro volta, altri atomi del gas facendo loro perdere altri elettroni. In questo processo a cascata il numero di elettroni liberati da un singolo fotone X (e dunque la corrente generata) dipende dall'energia del fotone stesso ed è quindi possibile misurarla. Proprio per questo motivo questo tipo di rivelatori è denominato proporzionale.

Infine, i CCD, simili a quelli utilizzati per le osservazioni ottiche, sono stati applicati solo di recente per osservazioni nei raggi X.

L’astronomia X indaga i fenomeni più energetici del nostro universo. Permette di studiare approfonditamente i diversi tipi stelle collassate (nane bianche, le stelle di neutroni, le supernovae ed i buchi neri) e anche oggetti di grandi dimensioni come le galassie attive che, per mezzo di intensissimi campi magnetici, accelerano particelle a velocità relativistiche. Tutti questi oggetti emettono enormi quantità di energia. Comprendere quanta e come questa energia venga prodotta non sarebbe possibile senza il contributo di questa branca dell’astronomia.
Gli astronomi moderni osservano il cosmo attraverso la luce X un po’ come fanno i medici quando guardano una radiografia, entrambi alla ricerca di una diagnosi.

 

I raggi Gamma

Concludiamo la nostra passeggiata lungo lo spettro elettromagnetico addentrandoci in quella che è la sua parte più energetica, la Radiazione Gamma (g). Questa radiazione è talmente energetica che non conviene più ragionare in termini di lunghezza d’onda e frequenza come abbiamo fatto finora, ma piuttosto in termini di energia associata ai fotoni attraverso la relazione E = hn dove l’energia (E) viene espressa in elettronvolt (eV).

Formalmente sono considerati raggi gamma tutti i fotoni con energie superiori a 100 KeV = 100.000 eV.

Questo significa che i fotoni gamma meno energetici hanno una lunghezza d’onda di 1,8*10-30 ed una frequenza di 1,667*10-38 Hertz.

Numeri piuttosto ingombranti da maneggiare, ecco perché è più comodo parlarne in termini energetici. Come già visto per i raggi X anche i raggi g sono completamente schermati dalla nostra atmosfera, gli studi possono essere compiuti solo attraverso strumenti a bordo di satelliti. Anche questa è quindi una branca molto recente dell’astronomia.

Curiosamente i primi ad evidenziare chiaramente le emissioni gamma del cosmo furono i satelliti spia della serie Vela, messi in orbita dai militari americani all’inizio degli anni ’60, durante la guerra fredda, per controllare il rispetto degli accordi internazionali che vietavano di compiere esperimenti nucleari nello spazio.

Un esplosione nucleare è anche fonte di raggi gamma e questi satelliti potevano scoprire l’avvenimento di un test atomico proprio attraverso la loro rilevazione. I Vela individuarono molte emissioni gamma, veri e propri lampi di fotoni g, questi tuttavia non erano dovuti ad esplosioni nucleari effettuate dall’uomo, ma erano invece di origine cosmica.

Questa scoperta rimase coperta da segreto militare fino al 1973, probabilmente per non svelare l’esistenza di questa rete satellitare. Quando finalmente i dati furono resi disponibili alla comunità scientifica ne seguì un grande fervore, furono messi in orbita diversi satelliti scientifici sensibili alla radiazione X e g. Tra i più importanti ricordiamo il COS-B, HEAO-3 e il CGRO (Compton Gamma Ray Observatory lanciato nel 1991).

Il satellite INTEGRAL dell'ESAAttualmente sono operativi tre satelliti dedicati all’astronomia gamma, l’INTEGRAL dell’agenzia spaziale europea, lo SWIFT della NASA e il nostro AGILE, costruito e messo in orbita dall’Agenzia Spaziale Italiana.

Essi in realtà possiedono sensori non solo per la radiazione gamma ma anche i raggi X, l’ultravioletto o per la banda del visibile, ed operano in stretta sinergia con i telescopi e radiotelescopi terrestri per permettere l’identificazione delle controparti ottiche e radio delle sorgenti gamma.

La grande energia di questi fotoni rende difficile la costruzione di apparati che possano convogliare la radiazione verso un rivelatore, anche la tecnica dell’incidenza radente usata per focalizzare i raggi X non funziona con gli ancora più energetici raggi gamma.

Nei rivelatori un fotone g, attraversando un materiale pesante (generalmente tungsteno o piombo), interagisce con esso. Da questa interazione si originano coppie di elettroni e positroni (elettroni con carica positiva). Questa coppia compie una traiettoria dalla forma caratteristica a V rovesciata che viene tracciata da una serie di strati di silicio consentendo la ricostruzione della direzione del raggio gamma incidente, un calorimetro infine consente di valutarne l’energia.

schema di rivelatore per raggi gamma
schema di rivelatore per raggi gamma

Attraverso la tecnica della maschera codificata è possibile migliorare notevolmente la risoluzione angolare e quindi costruire un telescopio gamma anche se questi non possono essere riflessi.
Un piccolo forellino sulla parete opaca di una scatola (foro stenopeico) accoppiato ad una lastra sensibile sulla parete opposta sono tutto ciò che serve per avere una semplicissima macchina fotografica la cui definizione è tanto migliore quanto più è piccolo il foro d'entrata.

Questo principio può essere applicato anche ai raggi gamma. La parete anteriore sarà di materiale opaco ai raggi gamma (ad esempio tungsteno), mentre la lastra sensibile sarà rimpiazzata dal nostro rivelatore gamma che è sensibile alla posizione dove ha avuto luogo l'interazione del fotone.
Per aumentare la luminosità dello strumento senza perdere in definizione, questa maschera di ingresso è in realtà composta da un gran numero di fori, disposti secondo un determinato schema. Ogni foro produrrà un'immagine, saranno poi i calcolatori attraverso un algoritmo matematico a deconvolvere le immagini sovrapposte per riformare l'immagine reale.

principio della maschera codificata
principio della maschera codificata

L’astronomia dei raggi gamma esplora i fenomeni più energetici dell’universo, dalle pulsar (che funzionano come colossali acceleratori di particelle), ai nuclei galattici attivi, dove l’emissione gamma è attribuibile ad un buco nero galattico.

Infatti un’emissione così energetica da parte di oggetti così lontani non può essere spiegata sulla base della normale emissione stellare, l’unico meccanismo in grado di fornire così tanta energia è un buco nero di milioni di masse solari posto al centro della galassia ed alimentato da materia che nel vortice di caduta verso il buco nero viene accelerata a velocità relativistiche ed emette energia.

Anche la nostra galassia ha nel suo cuore un buco nero, che le osservazioni gamma hanno mostrato essere inattivo, cioè non più alimentato da materia che cade verso di esso. La misurazione dell’abbondanza di un isotopo dell’alluminio (26Al che decade emettendo un fotone gamma) ha permesso di confermare e misurare la direzione di rotazione della nostra galassia e il numero di supernovae che mediamente vi esplodono, particolarmente nel centro galattico oscurato ai telescopi ottici convenzionali da grandi quantità di polvere.

Ci sono poi i lampi gamma o GRB (Gamma Ray Burst) che, come abbiamo visto, sono stati la prima sorgente gamma ad essere scoperta. Da più di trent’anni gli astronomi si interrogano sulla loro origine, questi lampi potentissimi, che durano da qualche frazione di secondo a qualche minuto, avvengono in ogni regione della sfera celeste. L’energia ad essi associabile è pari a quella che tutte le stelle della nostra galassia rilasciano in un anno.

Dalle osservazioni coordinate gamma ed ottiche si è visto che questi lampi si originano in galassie lontane.

La teoria oggi più accreditata ritiene che essi si originino dall’annichilimento tra due stelle di neutroni appartenenti a queste galassie, ma il dibattito è ancora aperto. Il satellite SWIFT è stato concepito appositamente per il loro studio.

il satellite Swift osserva un buco nero
il satellite Swift osserva un buco nero

L’astronomia delle alte energie e quella gamma in particolare testimoniano l’esistenza di un universo violento, plasmato da fenomeni straordinariamente energetici.
La quiete apparente del cielo stellato così come appare ai nostri occhi di uomini è solo la veste sotto la quale l’universo cela il suo animo turbolento.

 

- Pubblicato in puntate su “Oculos Enoch” n.10-16, 2008-2009 -


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