di Annalisa Ronchi
La Terra è un corpo solido che, visto dallo spazio, sembra perfettamente sferico.
Nella realtà, a seguito di misurazioni effettuate con i più accurati strumenti montati sui satelliti geodetici, ci si è accorti che non lo è. Non è piatta ma, anche se montagne come quelle della catena himalaiana appaiono di grande imponenza, in realtà elevazioni o fosse di 10 chilometri sono ben poca cosa rispetto agli oltre 6.000 di raggio, si possono paragonare a irregolarità di 1 o 2 mm su una sfera avente il raggio di un metro, in più il profilo del pianeta si discosta in modo lieve, ma significativo, da quello della sfera a cui si fa sempre riferimento. Ad esempio, il diametro che passa per i poli è più corto di quello che passa per l’equatore (rispettivamente 6.356,912 e 6.378,388 chilometri), e il raggio dell’emisfero nord è minore di quello dell’emisfero sud.
La forma che più si avvicina a quella della Terra è la forma della pera, quasi sferica ma pur sempre piriforme.
Gli scienziati hanno creato una figura ad hoc per facilitare gli studi geodetici, la forma che la Terra assumerebbe se il livello medio del mare si estendesse in continuità anche laddove si trovano le terre emerse, colmando le eventuali depressioni e spazzando via tutti i rilievi: il geoide.
Geoide letteralmente significa "a forma di Terra", quindi la Terra è a forma di Terra. Semplice, no?
Perché il nostro pianeta abbia proprio questa forma non si sa con certezza ma le ipotesi più accreditate considerano la rotazione terrestre e la distribuzione asimmetrica dei continenti.
Il nostro pianeta (o geosfera) per poterlo studiare meglio, viene suddiviso in quattro sfere.
Ogni sfera ha composizione e struttura fisico-chimica grossolanamente uniformi e viene ulteriormente suddivisa in zone con caratteristiche ancora più omogenee.
La geosfera viene suddivisa in atmosfera (sfera del vapore, dal greco atmòs), biosfera (sfera della vita, dal greco biòs), litosfera (sfera della pietra, dal greco lithòs) e dalla idrosfera (sfera dell’acqua, dal greco hydròs).
LA LITOSFERA
È la parte più estesa e sconosciuta della Terra, masse rocciose allo stato solido e fluido si estendono per una profondità di oltre 6.000 chilometri fino al centro del pianeta, mantenendo attiva una potente dinamica endogena.
Dato che le trivellazioni più profonde sono giunte a circa 15 chilometri, che rappresenta solo una scalfittura superficiale della crosta terrestre, tutto ciò che si ipotizza su quello che c’è al di sotto è frutto di elaborazioni teoriche basate principalmente sull’analisi del moto delle onde sismiche che attraversano il globo.
Quando si verifica un terremoto, l’energia accumulatasi si libera all’improvviso (un po’ come quando cerchiamo di spezzare un ramo: prima si piega poi improvvisamente si spezza liberando l’energia accumulata) producendo quelle che comunemente si definiscono onde sismiche.
A partire dall’ipocentro si propagano numerosi tipi di onde sismiche in ogni direzione, smorzandosi a poco a poco.
Utilizzando dei sismografi sparsi un po’ su tutti i continenti, i fisici e i geologi sono in grado di registrare le onde di qualsiasi terremoto e, dall’analisi accurata dei tempi impiegati dalle onde nel propagarsi dal loro luogo di origine ai rilevatori, possono determinare le condizioni fisiche dell’interno terrestre.
In pratica, la Terra è una sorta di gigantesca campana sferica che viene periodicamente percossa dai terremoti e compito degli scienziati è di "ascoltare come risuona".
Fu proprio studiando i sismogrammi registrati dal suo osservatorio di Zagabria nel 1909 che Mohorovicic trovò una spiegazione convincente: l’interno della Terra è costituito, a profondità diverse, da vari materiali con differenti densità, per questo le onde sismiche vengono riflesse e deviate (rifratte) a seconda degli strati che incontrano sul loro percorso.
Per la riflessione delle onde si verifica ciò che avviene quando un raggio di luce colpisce uno specchio: esso viene riflesso in modo che l’angolo incidente è uguale a quello riflesso.
Il fenomeno della deviazione delle onde sismiche è simile a quello delle onde luminose: quando immergiamo una matita in un bicchiere d’acqua, questa ci sembra spezzata, infatti un raggio di luce quando passa da un mezzo meno denso (in questo caso l’aria) ad un mezzo più denso (l’acqua), subisce una deviazione. Tale fenomeno è chiamato rifrazione.
I vari tipi di onde, riconoscibili sul tracciato del sismografo, sono caratterizzate da moti preferenziali della roccia (sussultori, compressivi,…) e da una diversa velocità.
Le onde P (o primarie) sono le più veloci e quindi sono le prime ad arrivare. Si propagano come le onde sonore nell’aria
, sono infatti dette anche "longitudinali", perché fanno oscillare le particelle di roccia parallelamente alla direzione di propagazione.
In pratica, al loro passaggio, varia il volume delle rocce dato che si comprimono e si dilatano continuamente.
Le onde S (o secondarie) sono più lente delle P e anche il loro modo di muoversi è diverso: l’oscillazione delle particelle di roccia avviene trasversalmente alla loro direzione di propagazione.
A differenza delle onde P, le onde S non causano variazioni di volume al loro passaggio e non si propagano nei fluidi.
Quando le onde P ed S raggiungono la superficie, da questo punto si propagano concentricamente onde superficiali più lente ma che sono responsabili dei danni più rilevanti, le onde di Rayleigh e le onde di Love.
Per immaginare l’azione delle onde di Rayleigh basta pensare alle onde che si propagano quando viene lanciato un sasso nello stagno. Esse fanno vibrare il terreno secondo orbite ellittiche e retrograde rispetto alla direzione di propagazione dell’onda.
Le onde di Love fanno vibrare il terreno sul piano orizzontale.
Il movimento delle particelle attraversate da questa onde è trasversale e orizzontale rispetto alla direzione di propagazione.
Sia le onde P che S rallentano quando si muovono attraverso un materiale più caldo e, analogamente a quanto accade con i raggi luminosi (come detto prima), vengono rifratte o riflesse al confine tra due strati con differenti proprietà fisiche, in particolare con diversa densità ed elasticità.
I geofisici hanno suddiviso il pianeta in grandi zone che dalla superficie al centro sono la crosta (che arriva fino a circa 40 chilometri di profondità sotto i continenti e 10 sotto gli oceani) costituita prevalentemente da silicati e carbonati, il mantello costituito per la maggior parte da silicati di magnesio e ferro, il nucleo esterno liquido (formato, secondo l’ultima ipotesi, da ferro, zolfo, ossigeno e silicio) e il nucleo interno solido (ferro, zolfo e silicio).
Tra una parte e l’altra vi sono superfici di discontinuità che prendono il nome degli scienziati che le hanno identificate. La più famosa è la discontinuità di Mohorovicic (detta Moho) che separa crosta e mantello.
Ma abbiamo anche la discontinuità di Conrad, la discontinuità di Dahn (posta a 1.200 chilometri di profondità tra astenosfera e mantello inferiore) la discontinuità di Lehman (situata verso i 5.000 ~ 5.500 chilometri tra il nucleo esterno e il nucleo interno).
Il mantello si comporta come un fluido denso ma capace comunque di movimenti convettivi.
Che la crosta terrestre sia oggetto di un continuo mutamento è sotto gli occhi di tutti, con terremoti, frane, eruzioni vulcaniche, erosione, ma malgrado tutto questo, un centinaio di anni fa la Terra era comunemente considerata un pianeta immutabile, assolutamente immutabile.
A partire dall’ottocento però, disponendo di dati sempre più numerosi e attendibili sulla geografia e l’età della Terra, si cominciò a cercare il meccanismo che innalzava le montagne e recuperava e trasformava i sedimenti.
Quando si misura l’intensità della forza di gravità sulla superficie topografica, si può dedurre il valore teorico che si sarebbe osservato sul geoide, ma nella realtà si ottengono valori anomali.
Le teorie dell’isostasia di Pratt ed Airy si propongono di spiegare questo fatto ammettendo l’esistenza di una diminuzione di densità sotto i massicci montuosi e di un eccesso di densità sotto gli oceani che compenserebbero l’effetto esterno della variazione del rilievo della superficie topografica.
Secondo i due studiosi, la crosta è formata da grandi prismi, enormi blocchi rocciosi che affondano più o meno nell’astenosfera, la parte più plastica del mantello.
In pratica, le montagne, meno dense, galleggiano su pianure o fondali marini più densi, proprio come navi che affondano in misura maggiore o minore a seconda dell’entità del loro carico.
In Pratt si parla di blocchi di diversi materiali che poggiano sopra una superficie di compensazione isostatica posta a circa 120 chilometri di profondità.
In Airy i materiali sono solo due, uno più leggero, la crosta, e uno più pesante. Quindi un blocco affonderà più o meno a seconda della sua grandezza. Nel modello di Pratt varia la densità, nel modello di Airy varia la profondità di ogni singola colonna.
L’isostasia ebbe molti sostenitori e in alcuni casi è ancora valida. Un esempio è quello della zona scandinava, che continua a sollevarsi di alcuni millimetri ogni anno dal termine dell’ultima glaciazione: il peso del ghiaccio che la comprimeva è sparito, quindi la nave si è liberata del suo peso.
Alfred Wegener ipotizzò che tutti i continenti, un tempo uniti nell’enorme continente Pangea, si fossero allontanati fra loro come zattere alla deriva.
Nel “Die Entstehung der Kontinente und Ozeane” del 1915 espone la sua teoria della deriva dei continenti che venne più che violentemente respinta dall’ambiente geologico: per quanto suggestiva, tale deriva presuppone l’esistenza di un motore, del quale ancora non si conosceva l’esistenza.
La sua solenne rivincita venne negli anni sessanta dagli abissi oceanici.
Hess scopre che a livello delle dorsali medio-oceaniche, paragonabili a vere e proprie cinture vulcaniche, i fondali si accrescono.
Ecco il motore !
Su questa ipotesi si basa la teoria della tettonica a placche proposta da McKenzie e Parker: la crosta terrestre è un immenso puzzle di blocchi rocciosi (le placche) in movimento, le quali poggiano sul mantello sopra la discontinuità di Moho.
Ogni placca nasce da una dorsale oceanica che, eruttando sempre nuovi basalti, la spinge a scivolare sul mantello. Le placche possono scorrere lungo i margini di placche vicine, un esempio è la famosa faglia di Sant'Andreas in California, e questo può provocare terremoti.
Alcune si scontrano e danno origine a catene montuose, come è accaduto per Alpi e Himalaia.
Altre scivolano sotto ad un’altra creando fosse oceaniche, come la fossa delle Marianne, e le rocce della placca sprofondata, fuse dal calore a dalle enormi pressioni, risalgono in forma di magma creando le catene montuose costiere di origine vulcanica, come le Ande.
La velocità di subduzione, vale a dire di distruzione di crosta, è rilevante se si considera che l’età di campioni di rocce dei fondali marini non supera i 200 anni.
Il vulcanismo si manifesta in modi diversi e ciò è duvuto in larga parte al tipo di magma espulso ed alle cause.
Le cause fondamentali sono l’apertura dei fondali oceanici, la subduzione che crea archi di vulcani, oltre ai cosiddetti hot spot.
La natura del magma dipende principalmente dalla percentuale di silice, infatti, premesso che la viscosità è direttamente proporzionale alla temperatura, i magmi ricchi in silice sono (a parità di condizioni) più viscosi, i legami tra le molecole sono molto forti, si spezzano con maggiore difficoltà e quindi non agevolano la dispersione dei gas e del vapore acqueo in esso contenuti, per cui si hanno eruzioni esplosive. Queste colate si arrestano quasi subito, formando corpi tozzi vicino ai coni di emissione, o formando duomi, guglie (o tappi) e spine. Un esempio è il vulcano Peleé nella Martinica o il Mount Saint Helen.
Le colate laviche date da magmi meno densi, sono molto fluide in relazione alla bassa viscosità e allo scarso contenuto di elementi volatili. Esempi sono i vulcani hawaiani Mauna Loa e Kilauea, oltre al nostro Etna.
Il vulcanismo che si verifica all’interno di una placca, e non ai suoi bordi, è detto di punto caldo, hot spot.
Numerosi studiosi ritengono che in tale caso il magma giunge direttamente dalle regioni del mantello prossime al nucleo.
Come una enorme e potentissima fiamma ossidrica, il getto di magma perfora la crosta fino a giungere in superficie.
Ora, dato che le placche sono in continuo movimento, si verifica che il getto caldo crea una serie di vulcani posti lungo la direzione di spostamento, e solo l’ultimo della serie è quello attivo, mentre gli altri, a mano a mano che ci si allontana da ques’ultimo, sono sempre più vecchi e comunque spenti.
Un altro aspetto del vulcanismo molto affascinante sono i geyser, getti intermittenti di acqua calda e vapore dovuti al riscaldamento, provocato dal calore magmatico, di colonne d’acqua sotterranea.
L’intermittenza dei getti è in relazione con i tempi di riempimento della colonna d’acqua e del suo riscaldamento.
Per la maggior parte della gente dire "minerale" o "roccia" è la stessa cosa, ma in realtà la distinzione tra i due termini è chiara e ben definita.
I minerali sono formati da un solo composto chimico e, di solito, hanno un tipico aspetto cristallino e una struttura geometrica precisa.
Le rocce sono masse costituite da aggregati di sostanze diverse e spesso da minerali diversi.
Per questo solitamente i minerali sono classificati in base al principale elemento chimico che li costituisce (aragonite, calcite e celestina sono ad esempio tutti carbonati, così come corindone, ematite e quarzo sono ossidi) mentre le rocce sono distinte a seconda della loro origine.
Sulla base del loro processo di formazione, le rocce si dividono in tre grandi gruppi: magmatiche, sedimentarie e metamorfiche.
Le rocce magmatiche che solidificano in profondità sono dette intrusive, quelle che giungono in superficie, effusive.
La differenza che salta subito all’occhio è la presenza o meno di cristalli visibili.
Nelle rocce intrusive, il magma cristallizza con una lenta diminuzione di temperatura dovuta alla pressione creata dalla coltre sovrastante delle rocce che lo contengono. La presenza delle componenti volatili, fa si che vi sia un costante rimescolamento delle molecole così a formare cristalli di dimensioni apprezzabili o notevoli (es. granito).
Le rocce effusive cristallizzano invece in superficie, sotto pressione atmosferica per cui risultano degassate, di grana microcristallina o addirittura, in parte più o meno rilevante, ancora vetrose (es. basalto).
Le rocce sedimentarie sono classificate non tanto in base al processo di disgregazione delle rocce preesistenti da cui derivano, quanto al meccanismo di deposito che è responsabile della loro tessitura e struttura finale.
Le rocce clastiche sono costituite da frammenti di rocce di ogni tipo depositatasi dopo aver subito un certo trasporto. L’ambiente di deposizione (fluviale, marino, continentale, ...) è responsabile del tipo di materiale cementante ma non influisce nella loro classificazione, che si basa sulle dimensioni dei clasti: si distinguono in tal modo i seguenti gruppi di rocce. Conglomerati, derivati dalla cementazione di ghiaie più o meno levigate, le arenarie, che sono sabbie cementate, e poi argille, marne, piroclastiti, cioè depositi di ceneri, tufi e lapilli lanciati da esplosioni vulcaniche.
Le rocce di origine chimica sono quelle che si sono deposte appunto per fenomeni chimici, le più note delle quali sono le cosiddette evaporiti, che si formano quando un bacino marino isolato evapora completamente, o quasi, lasciando sul fondo tutti i sali che conteneva in ordine inverso di solubilità: prima il carbonato di calcio (calcite), poi il gesso, infine la salgemma, la silvite e la carnallite.
Esistono infine le rocce metamorfiche.
Metamorfosi significa trasformazione, e con il termine metamorfismo si indica un profondo mutamento di una qualsiasi delle rocce finora viste, quando siano esposte a grandissime pressioni e ad alte temperature.
I tipi principali sono i gneiss, ma anche le filladi che derivano da argille trasformate in buona parte in miche e che si presentano in lamine tanto sottili da provocare lo sfaldamento delle rocce in fogli sottili.
Una curiosità: gli elefanti
Che gli elefanti comunicassero fra loro con ultrasuoni era noto, ma la novità è che lo fanno utilizzando anche le onde sismiche, che percepirebbero con recettori presenti sulle zampe.
Studiosi dell’università di Stanford hanno dimostrato che gli elefanti possono produrre onde a bassa frequenza capaci di viaggiare attraverso il suolo.
Questa forma di comunicazione è utilizzata anche da una grande varietà di altri animali come insetti, artropodi, anfibi e piccoli roditori.
È stato dimostrato che i suoni emessi dagli elefanti hanno frequenze al di sotto dei 30 Hertz (quindi che noi non possiamo udire) che possono diffondersi nel suolo e coprire distanze di oltre 2 chilometri.
Secondo gli studiosi, la comunicazione basata sulle onde sismiche potrebbe essere utilizzata come riserva, nel caso in cui non ci siano condizioni ideali per la comunicazione acustica.
IDROSFERA
Si chiama idrosfera la parte del pianeta occupata da acqua liquida o solida: una sfera che si estende da circa 8 chilometri di altezza (come le montagne più alte) a circa 11 chilometri di profondità (le fosse oceaniche).
Dal punto di vista ecologico, l’acqua è uno dei più importanti componenti dell’ambiente visto che è indispensabile per tutte le funzioni vitali degli organismi in qualsiasi ecosistema. Infatti è una necessità fisiologica poiché tutte le reazioni attraverso le quali si svolge il metabolismo di un organismo vivente avvengono in soluzioni acquose. Per questo, nonostante sia una tra le sostanze più abbondanti sulla Terra, la sua presenza rappresenta il fattore condizionante più importante per qualsiasi forma di vita.
Negli ultimi decenni, gli astronomi hanno scrutato gli angoli più nascosti del sistema solare e hanno trovato in diversi luoghi l’acqua: nell’atmosfera di Marte, di Venere e dei pianeti giganti come Giove, e persino all’interno di alcuni crateri di Mercurio, dove nelle zone illuminate,
le temperature superano anche i 400 °C.
Si ritiene che acqua liquida debba trovarsi sotto la superficie di Marte e di Europa, uno dei satelliti galileiani.
Il ghiaccio è inoltre presente nelle comete (sono formate da ghiaccio e rocce) nonché nei satelliti e negli anelli dei pianeti giganti (specialmente di Saturno).
Recentemente un gruppo di astronomi giapponesi e inglesi ha scoperto una stella che emette nello spazio due getti di molecole d’acqua attorcigliati su se stessi dalla sua rotazione. La stella in questione si chiama W43A e si trova a circa 8.500 anni luce da noi in direzione della costellazione dell’Aquila. Si tratta di una stella molto vecchia che ha probabilmente raggiunto la fine della sua vita normale e sta per formare una nebulosa planetaria.
La grande presenza di acqua nel sistema solare e nell’universo (come in numerose nebulose, tra cui la splendida M42) non deve sorprendere considerando quanto siano abbondanti gli elementi che la costituiscono.
Secondo il modello del big bang, l’esplosione primordiale creò gli atomi di idrogeno e di elio.
Carbonio, azoto e ossigeno e gli altri elementi si formarono successivamente, dalle reazioni nucleari che avvengono nelle stelle.
Dopo idrogeno ed elio, carbonio e ossigeno sono gli elementi più comuni dell’universo.
Data la forte affinità fra gli atomi di ossigeno e di idrogeno, le molecole d’acqua sono molto stabili: le si deve riscaldare a 3.000°K perché comincino a dissociarsi.
L’acqua assume molte forme in natura, solido come nel ghiaccio, gassoso come nel vapore acqueo e liquido, nell’acqua propriamente detta.
La Terra è l’unico luogo conosciuto in cui si possono ritrovare tutti e tre gli stati, gas liquido e solido, e dove le molecole passano continuamente dall’uno all’altro seguendo il cosiddetto "ciclo dell’acqua" o, più propriamente, "ciclo idrologico", sostenuto dall’energia che proviene dal Sole.
Nel suo continuo movimento, l’acqua modella la litosfera, erodendola, trasportando i detriti e accumulandoli formando nuove strutture geologiche, inoltre, poiché l’acqua ha un alto calore specifico, l’idrosfera rappresenta un enorme serbatoio di calore e influenza in modo determinante i climi e i venti delle terre emerse.
Per comprendere da dove arrivi l’acqua che è presente sulla Terra dobbiamo andare indietro nel tempo, a 4.600 milioni di anni fa, ai primissimi stadi della formazione dei pianeti del sistema solare.
I pianeti hanno avuto origine dalla condensazione di materia all’interno di una nebulosa solare iniziale composta di gas e pulviscolo cosmico.
La tendenza nella nebulosa all’aggregazione delle particelle di materia solida ha portato alla formazione di planetesimi, corpi solidi di varie dimensioni, e la loro ulteriore aggregazione avrebbe portato alla formazione dei pianeti.
I componenti principali erano idrogeno ed elio ma anche l’ossigeno era abbondante.
Esistono due ipotesi per spiegare la presenza di acqua sulla Terra.
La più antica è che l’acqua sia stata portata dall’impatto con comete.
L’ipotesi alternativa è che molti dei planetesimi contenevano minerali composti di idrogeno e ossigeno, che, se liberati, potevano dare origine all’acqua.
BIOSFERA
In ecologia si definisce biosfera (o ecosfera) l’insieme delle zone del pianeta Terra (unico luogo ove sia nota l’esistenza di esseri viventi) in cui le condizioni ambientali permettono lo sviluppo della vita
Il termine biosfera si riferisce perciò a quella ristretta fascia di circa 20 chilometri di spessore compresa fra le cime montuose più elevate ed i fondali oceanici più profondi: solo qui, infatti, dove le condizioni di temperatura, pressione, umidità sono idonee alla sopravvivenza delle più disparate forme organiche che popolano la Terra, si possono trovare forme di vita.
La biosfera può essere scomposta in macro-unità caratterizzate da uniformità di condizioni del clima, in cui si sono adattate una flora e una fauna specifiche, definite biomi, i quali a loro volta possono essere scomposti in micro-unità chiamate ecosistemi.
Un ecosistema è un’entità costituita da una comunità (detta anche biocenosi) (componente biotica) e dall’ ambiente fisico circostante, il geotopo (che fa parte di una ecoregione), (componente abiotica), con il quale si vengono a creare delle interazioni reciproche in equilibrio dinamico.
Un ecosistema viene definito come un sistema aperto, con struttura e funzione caratteristica determinata da un flusso di energia e dalla circolazione di materia tra componente biotica e abiotica.
Nella quasi totalità degli ecosistemi il flusso di energia deriva dalla radiazione solare che, a differenza della materia, non è riciclabile ma, tuttavia, viene continuamente elargita dal sole.
Una volta raggiunta la Terra, una piccola parte di essa viene catturata ed utilizzata dagli organismi autotrofi fotosintetici per la trasformazione delle molecole inorganiche in sostanza organica.
Attraverso la catena alimentare, la materia organica viene poi utilizzata come fonte di energia dagli organismi eterotrofi, entrando così in circolo nell’ ecosistema.
Una tipica catena parte dalle sostanze chimiche inorganiche presenti nel terreno, nell’aria (anidride carbonica), acqua, e le trasforma per mezzo della fotosintesi clorofilliana in sostanze organiche (erba, piante alberi, alghe); i consumatori primari quindi se ne nutrono (erbivori, larve, molluschi) e trasformano le sostanze vegetali in proteine che saranno in seguito i l cibo dei consumatori secondari (predatori vari, uccelli, pesci); alla loro morte i decompostori (batteri, funghi) smonteranno le sostanze organiche in elementi inorganici che entreranno di nuovo nel ciclo.
Il concetto di biosfera, intesa nel suo insieme come un organismo vivente, è noto come “Ipotesi Gaia” o “Teoria di Gaia”.
L’ipotesi Gaia è una teoria formulata per la prima volta dallo scienziato inglese James Lovelock nel 1979 in "Gaia. A New Look at Life on Earth".
Nella sua prima formulazione l’ipotesi Gaia, che altro non è che il nome del pianeta vivente, si basa sull’assunto che gli oceani, i mari, l’atmosfera, la crosta terrestre e tutte le altre componenti geofisiche del pianeta Terra si mantengano in condizioni idonee alla presenza della vita proprio grazie al comportamento degli organismi viventi.
Ad esempio la temperatura, lo stato d’ossidazione, l’acidità, la salinità e altri parametri chimicofisici fondamentali per la presenza della vita sulla Terra presentano valori costanti.
Questa omeostasi è l’effetto dei processi di feedback attivo svolto in maniera autonoma e inconsapevole dal biota. Inoltre tutte queste variabili non mantengono un equilibrio costante nel tempo ma evolvono in sincronia con il biota.
Quindi i fenomeni evoluzionistici non riguardano solo gli organismi o l’ambiente naturale, ma l’intera Gaia.
Le modificazioni geologiche e climatiche della biosfera avvenute durante la storia del pianeta hanno influito profondamente sugli ecosistemi e gli organismi viventi, determinando processi evolutivi ed estinzioni.
Una accelerazione di queste modifiche sembra essere data anche dallo sviluppo della popolazione umana, che ha influito direttamente, in particolare dalla fine del secolo scorso, sulle condizioni ambientali e climatiche.
I principali fattori antropici che possono avere influenza negativa sulla biosfera sono:
ATMOSFERA
Atmosfera è forse il termine più vago usato per identificare una parte di un corpo celeste: esso indica infatti l’involucro superficiale di un pianeta o di una stella costituito prevalentemente da gas e da ioni (plasma).
I gas non hanno però un volume proprio, come solidi o liquidi, quindi è impossibile indicare un livello preciso al quale l’atmosfera finisce e inizia il plasma interplanetario, poiché appena la gravità non le trattiene più, le molecole gassose sfumano verso lo spazio.
Il 90% del gas atmosferico della Terra è concentrato nella parte più vicina al suolo e la sua composizione è ormai ben conosciuta: vapore acqueo, pulviscolo atmosferico (costituito da polveri provenienti dalla superficie terrestre e dallo spazio interplanetario, oltre che da sali), gas (azoto per circa il 78%, ossigeno per il 21%, quindi tutti gli altri come anidride carbonica, idrogeno, ecc.).
Si ritiene che l’atmosfera della Terra appena formata dovesse avere una composizione molto diversa da quella attuale.
Il degassamento della crosta della giovane Terra produsse un miscuglio di vapore acqueo (circa l’80% del volume totale), anidride carbonica (12%), biossido di zolfo (6%) e azoto.
Poi, la maggior parte del vapore acqueo si condensò formando gli oceani, mentre la maggior parte della CO2, dopo essersi sciolta negli oceani, contribuì alla formazione delle rocce carbonacee, come calcite e calcare dolomitico.
L’ossigeno non è il prodotto di degassamento o di attività vulcanica, ma è il materiale di scarto prodotto dalla fotosintesi.
Essa consiste nella formazione, sotto l’azione della luce solare, di carboidrati a partire da CO2 e acqua, da parte di organismi contenenti clorofilla ed altri pigmenti fotosintetici.
Sulla base dei dati e degli studi più recenti possiamo distinguere varie parti sovrapposte aventi ognuna caratteristiche particolari (le "sfere") separate l’una dall’altra da limitate zone di transizione (le "pause") poste a quote variabili a seconda della latitudine e della stagione.
La Troposfera (dal greco trópos = mutamento) è la parte più bassa dell’atmosfera, quindi il regno delle più vaste perturbazioni meteorologiche e della vita.
Questa fascia, che mediamente raggiunge un’altezza di 10 chilometri, viene riscaldata e raffreddata essenzialmente dalla superficie terrestre e perciò la sua temperatura diminuisce con l’altitudine, in media di 0,6 °C ogni 100 metri.
La troposfera è caratterizzata dalla presenza di movimenti orizzontali e verticali di masse d’aria, legati essenzialmente alla rotazione terrestre e agli squilibri termici dovuti all’inclinazione dell’asse terrestre.
Salvo nelle regioni tropicali, i raggi solari non investono mai perpendicolarmente la Terra, così che si sono formate le zone climatiche. Le correnti aeree contribuiscono al continuo rimescolamento dell’aria e, a causa dei moti verticali ascendenti e discendenti, si formano e dissolvono le nubi e si hanno le precipitazioni e le tempeste.
Esiste una vasta tipologia di nubi a seconda che siano prodotte da masse d’aria su grande o piccola scala e che si tratti di masse ascendenti o discendenti.
Le nubi più alte si chiamano cirri e sono costituiti quasi esclusivamente da cristalli di ghiaccio.
Le altre nubi, che si trovano ad altezze inferiori, sono formate da minutissime gocce d’acqua.
Nella Stratosfera, le temperature sono pressochè costanti nella metà più bassa mentre successivamente aumentano con un gradiente variabile di 1-3 °C per chilometro.
Questo aumento di temperatura è dovuto alla presenza di uno strato di ozono (ozonosfera). La radiazione ultravioletta solare dissocia la molecola di ossigeno composta da due atomi e gli atomi così liberi possono combinarsi con le molecole di ossigeno presenti formando ozono, la cui molecola è formata da tre atomi di ossigeno. Si assiste ad una continua formazione e dissociazione di molecole triatomiche e biatomiche e in questo processo pressoché tutta la radiazione ultravioletta viene assorbita, cosa di fondamentale importanza per la vita sulla Terra.
Fino a poco tempo fa si riteneva che la stratosfera fosse una zona tranquilla, in realtà qui ritroviamo una intensa circolazione d’aria, con venti che possono raggiungere velocità notevoli: sono le cosiddette "correnti a getto" che possono raggiungere i 500 chilometri all'ora. I primi incontri con questi venti li ebbero i piloti dei bombardieri americani durante la seconda guerra mondiale.
Quindi troviamo la Mesosfera, caratterizzata da una accentuata rarefazione degli elementi gassosi e da un graduale aumento di quelli più leggeri a scapito di quelli più pesanti.
Qui la temperatura riprende a diminuire con l’altezza e, intorno agli 80 chilometri raggiunge valori intorno ai –70 ~ -90 °C.
Nella Termosfera le proporzioni dei vari componenti gassosi appaiono ormai completamente cambiate e la densità assume valori sempre minori, mano a mano che si procede verso l’alto.
Questa regione è caratterizzata da un continuo aumento della temperatura con l’altezza, ma si tratta di temperature cinetiche, cioè le temperature che sarebbero necessarie al livello del mare perché le stesse molecole possedessero la stessa energia cinetica che hanno a queste altezze.
Un aspetto molto importante di questa parte di atmosfera è la sua ionizzazione (la parte tra i 50 ~ 70 chilometri è definita anche ionosfera) ed è qui che si formano le splendide aurore polari.
L’esosfera è, infine, la parte più esterna e perciò meno conosciuta dell’involucro gassoso che circonda il nostro pianeta.
La densità è bassissima tanto che la possibilità di collisione tra particelle è estremamente ridotta, la pressione esistente al di sopra di 400 chilometri di altezza è di appena un centomilionesimo di miliardesimo della pressione misurabile al suolo.
Esternamente c’è la frangia dell’atmosfera, dove le molecole sono ormai fuori del campo di gravitazione della Terra e non partecipano più alla rotazione terrestre.
Questa parte sfuma nell’atmosfera solare.
È il colore del mio sogno
È il colore delle altitudini
In questo azzurro disciolto
È immerso lo spazio terrestre
NIKOLOZ BARAT’ASUILI
Conferenza del 13 dicembre 2005
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