PERCHÉ LA NOTTE È BUIA ?
di Claudio Zellermayer

La domanda che pone il titolo può sembrare, ad un primo sguardo, molto banale. Se la si pone ad un bambino delle scuole elementari la risposta più prevedibile che possiamo ottenere è che di notte non c’è il Sole e la luce delle stelle è troppo debole per illuminare la notte.

Naturalmente la risposta non è così semplice, anzi per molto tempo la risposta a questa domanda ha creato una sorta di paradosso, un paradosso che ha smesso di essere tale quando la cosmologia ha fatto il suo ingresso tra le branche dell’astronomia. In queste poche righe si cercherà di dare un breve panorama storico sulla cosmologia per dare in definitiva una risposta scientifica al titolo di questo opuscolo.

Intanto è bene chiarire un primo concetto che riguarda il giorno e la notte.

Si è propensi a pensare che durante il giorno non si vedano le stelle fisse a causa dell’abbagliante luce solare. Niente di più sbagliato. La causa dell’invisibilità delle stelle fisse durante il giorno è da imputare alla presenza dell’atmosfera terrestre. I gas che compongono l’atmosfera della Terra hanno la capacità di diffondere in modo uniforme la luce che proviene dal Sole in modo tale che questa sembra arrivare da tutte le direzioni e non solamente dal Sole. Oltre a ciò il fenomeno della diffusione ci fa percepire il colore azzurro del cielo.

Una situazione analoga di diffusione, più limitata, la si prova guidando nella nebbia: le goccioline di nebbia sparpagliano la luce dei fari rendendo difficile l’illuminazione della strada. Di notte la luce solare non è presente quindi il fenomeno di diffusione o non c’è o è creato, ad esempio, dalla Luna. Chiunque avrà notato che nelle notti di Luna piena il cielo è rischiarato dalla sua luce. La luce della Luna, luce solare riflessa, è meno intensa e di conseguenza il fenomeno della diffusione si fa sentire di meno. Anche le luci artificiali delle nostre città subiscono l’effetto della diffusione rendendo difficile l’individuazione delle stelle meno luminose. Questo problema va sotto il nome di inquinamento luminoso. Se la Terra fosse priva della sua atmosfera, di giorno il cielo si vedrebbe nero e sarebbe possibile notare le stelle fisse. Osservando attentamente le fotografie fatte dagli astronauti sulla Luna si può notare che il cielo durante il giorno lunare è nero e sarebbe possibile vedere le stelle fisse. Gli astronauti sbarcati sulla Luna le hanno proprio viste durante il giorno lunare.

Il problema del perché la notte sia buia è un problema, come detto prima, cosmologico.

Fintanto che il cielo veniva osservato ad occhio nudo, quindi senza strumenti ottici, la notte era buia a causa della fievole luce delle stelle e al loro numero limitato, sempre a prescindere dal conoscere il fenomeno di diffusione detto prima. I Greci e gli altri popoli antichi che si dedicavano all’osservazione del cielo erano convinti che le stelle fisse si trovassero tutte alla stessa distanza dalla Terra, incastonate in una sfera cristallina detta appunto delle stelle fisse. Di conseguenza le stelle visibili diventavano le uniche esistenti, perché questa concezione di universo aveva come limite tale sfera: l’universo dei Greci era finito. Nessuno si sognava di pensare che essendo la nostra vista limitata si potesse vedere un numero di stelle inferiore a quello esistente.

Con Galileo cominciano le sistematiche osservazioni del cielo col cannocchiale e appare subito evidente che le stelle sono in un numero enormemente più elevato di quanto fosse fino ad allora immaginato. Newton, nel ‘700 immagina uno spazio che si estende senza limiti dove le stelle sono corpi di natura analoga al Sole e le loro distanze possono valutarsi in base alla luminosità apparente. In questa concezione newtoniana di uno spazio infinito la quantità delle stelle doveva pure essere infinita.

Un altro concetto legato alla visione newtoniana dell’Universo è che le stelle devono anche essere distribuite uniformemente nel cielo, cioè la loro densità deve essere costante. Si aveva quindi un universo omogeneo ed isotropo. Se la Terra viene spodestata, dalla rivoluzione copernicana, dal suo punto privilegiato dell’Universo allora questo deve apparire uguale in qualsiasi suo punto, cioè non esistono punti di vista privilegiati all’interno dell’Universo. Naturalmente col termine Universo a cavallo tra il ‘700 e l’800 si intendeva la sola Via Lattea; ancora era di là da venire il concetto di galassie ed altri termini cari alla cosmologia di questo inizio secolo. Questi concetti di omogeneità (densità di stelle costante), isotropia e infinitezza dello spazio portarono al cosiddetto Paradosso di Cheseaux-Olbers. Arriviamo per gradi a capire questo apparente paradosso.

La luce di una qualsiasi fonte luminosa tende ad affievolirsi con la distanza della sorgente dall’osservatore: una lampadina da 100 watt ci fornisce molta luce se è posta al centro di una stanza mentre ci appare molto poco luminosa se la vediamo ad un centinaio di metri da noi. Quando gli astronomi credevano che le stelle fossero tutte uguali giudicavano le distanze di esse dalla Terra in base all’affievolimento della loro luce.

Ora noi sappiamo che le stelle non sono fisicamente tutte uguali. L’affievolirsi della luce con la distanza è conseguenza del fatto che a distanze via via maggiori dalla sorgente luminosa la stessa quantità di luce deve illuminare una superficie maggiore. In termini matematici si dice che la luminosità cala con il quadrato della distanza dalla sorgente. In termini più pratici diciamo che se la distanza raddoppia allora la luminosità cala di quattro volte, se la distanza triplica, la luminosità cala di nove volte, se quadruplica cala di sedici volte e così via. Se le stelle che vediamo ad occhio nudo fossero le sole presenti allora il problema della notte buia sarebbe risolto: la luce delle stelle più distanti finirebbe per non essere percepita. Però la concezione di Universo descritta prima ci diceva che lo spazio è infinito ed anche le stelle sono in numero infinito. Se poi la densità delle stelle è costante allora il loro numero dovrà crescere con il volume di spazio considerato cioè, sempre in termini matematici, con la terza potenza della distanza. Ancora una volta, se raddoppia la distanza il volume cresce di otto volte, se triplica la distanza il volume cresce di 27 volte e così via. Se mettiamo insieme questi due concetti otteniamo il paradosso in questione.

La luce delle stelle cala secondo una certa legge con la distanza però il loro numero cresce con un’altra legge sempre con la distanza. Le due leggi sono diverse nel senso che il numero delle stelle aumenta più velocemente con la distanza di quanto cali la loro luce con la distanza stessa. Facendo un semplice conto (che non si fa qui) risulta che complessivamente la luminosità delle stelle cresce in modo proporzionale con la distanza: al raddoppiare di essa la luminosità raddoppia, al suo triplicare la luminosità triplica e così via. Se l’universo è infinito allora la luminosità deve pure essere infinita e di conseguenza di notte il cielo dovrebbe essere più luminoso che di giorno. La luce delle stelle fisse dovrebbe offuscare la luce del Sole! Questo è il paradosso in questione.

Dato che noi vediamo la notte buia ci deve essere da qualche parte in questo ragionamento appena fatto un errore. Per capire perché il paradosso di Cheseaux-Olbers non è un paradosso (e quindi trovare l’errore) si deve aspettare i primi anni di questo secolo e la nascita della moderna cosmologia.

I concetti di universo extragalattico come noi ora sappiamo sono legati ad una serie di scoperte osservative e teoriche datate intorno agli anni ‘20.

Le osservazioni fatte con telescopi via via migliori mostravano tra i vari oggetti celesti delle “nebulose a spirale” chiamate così perché apparivano proprio come nebulosità biancastre a forma di spirale. L’avvento della fotografia astronomica migliorava di molto la definizione dei particolari mettendo in mostra sempre meglio la forma spiraleggiante di questi corpi celesti. Noi oggi le chiamiamo galassie. Tuttavia in quegli anni il problema che assillava gli astronomi era capire dove fossero situate queste nebulose a spirale: dentro o fuori la Via Lattea?

Per capire ciò era necessario avere un metodo di misura delle distanze di questi oggetti. Misurare le distanze astronomiche, data l’impossibilità di percorrerle, è un problema piuttosto serio, anche oggi. Per misurare le distanze delle galassie si usa un metodo che richiama i concetti di affievolimento della luce espressi prima. Se è possibile distinguere nella galassia di cui si vuole misurare la distanza una stella particolare di cui già si conosce la sua luminosità intrinseca, cioè legata alla sua natura fisica, ecco che eufemisticamente il gioco è fatto.

Tornando all’analogia della lampadina, in commercio non esistono solo lampadine da 100 watt quindi se in un qualche modo si capisce che tipo di lampadina stiamo vedendo allora possiamo, dall’affievolirsi della luce, valutare la distanza. Capire che lampadina stiamo vedendo è fondamentale: una luce fievole può arrivare da una lampadina da 100 watt posta a grande distanza o da una lampadina da 25 watt posta a distanza minore!

Tornando all’astronomia, esistono delle stelle chiamate Cefeidi che per la loro natura fisica si riconoscono dalle altre quindi basta trovare una Cefeide in una galassia di cui si desidera misurare la distanza ed ecco che il problema è più o meno risolto. Nel 1917 un astronomo americano scoprì questo metodo di misura e verso il 1924 l’astronomo Hubble vide delle cefeidi nella galassia di Andromeda e ne valutò la distanza.

Tutto ciò fu possibile anche grazie alla costruzione di un telescopio con uno specchio di 2,5 metri di diametro: per l’epoca era il migliore al mondo. Le misure di Hubble della distanza di Andromeda e di altre galassie mostrarono che esisteva un universo extragalattico perché le distanze misurate (seppure sottostimate) erano di gran lunga maggiori delle dimensioni della Via Lattea (nome con cui chiamiamo la nostra galassia). Le osservazioni di Hubble però non mostrarono solo questo. Analizzando la luce proveniente da oggetti celesti siano questi stelle, nebulose o galassie è anche possibile agli astronomi valutare le velocità di spostamento di questi oggetti: le stelle fisse non sono affatto fisse. L’analisi della luce delle galassie di cui Hubble misurava le distanze mostrava che questi oggetti si allontanavano gli uni dagli altri, come se fossero animati da un moto di espansione il cui centro fosse, ancora una volta, la Terra.

Casualmente e senza nessuna pretesa Hubble scoprì l’espansione dell’Universo e trovò anche una relazione matematica empirica di questa espansione: all’aumentare della distanza delle galassie l’espansione cresce in maniera proporzionale. In poco tempo la concezione dell’universo cambiò radicalmente: esisteva un universo al di fuori della nostra galassia e questo universo era dinamico, in espansione.

Contemporaneamente la cosmologia teorica tramite la teoria della relatività di Einstein mostrava che le osservazioni erano perfettamente compatibili con i vari modelli di universo che via via venivano trovati a livello teorico.

L’analisi della luce, detta anche spettroscopia, mostrava dunque un moto di espansione delle galassie tipiche cioè di quelle galassie che non mostravano altri movimenti dovuti alla forza gravitazionale che agisce all’interno di un ammasso di galassie. Tutto ciò si traduce in un cambiamento della luce degli oggetti che sono in allontanamento da noi. Cerchiamo di spiegare un po’ meglio questo concetto che va sotto il nome di “redshift cosmologico”.

Gli astronomi sono capaci di valutare gli spostamenti delle sorgenti di luce tramite il noto “effetto Doppler”. Tale effetto si manifesta per tutti i fenomeni ondulatori quindi anche per le onde sonore. Sarà capitato a tutti di sentire, durante il sopraggiungere di un’ambulanza o di un treno, che il fischio o la sirena cambiano la loro frequenza col movimento della sorgente del suono: è acuto quando si avvicina alle nostre orecchie, è greve quando se ne allontana. Anche la luce, che ha anche un comportamento ondulatorio, subisce lo stesso effetto solo che invece di un suono che cambia qui è il colore a cambiare. Se la stella si sta avvicinando a noi la sua luce tenderà ad essere leggermente più blu (questo lo si deduce dal suo spettro) e gli astronomi chiamano ciò “blueshift” o spostamento verso il blu; se la stella si sta allontanando la sua luce sarà un po’ più rossa, quindi “redshift” o spostamento verso il rosso. Se la sorgente in allontanamento è una galassia che partecipa al moto di espansione dell’universo allora avremo il redshift cosmologico citato prima.

Per non perdere il filo del discorso sul paradosso di Cheseaux-Olbers vediamo perché non è un paradosso utilizzando una serie di concetti cosmologici e relativistici.

Si diceva prima che dato che la notte è buia ci doveva essere un difetto nel ragionamento della luminosità delle stelle che cresce all’infinito. I difetti sono addirittura due.

  • l’Universo non è infinito seppure illimitato
  • il contributo alla luminosità non è costante
  • 1) Sappiamo dalla relatività di Einstein che la luce viaggia alla velocità di 299.792,458 km/sec e che tale velocità è un limite invalicabile della natura: nessun corpo materiale può superare tale limite e nemmeno raggiungerlo, solo la luce può raggiungere tale limite. Allora se l’espansione dell’Universo ne decreta una sua origine (la teoria del Big Bang) noi non possiamo vedere oggetti più lontani di una certa distanza data dal prodotto della velocità della luce ed il tempo di vita dell’Universo. Se anche l’universo fosse infinito, la velocità di propagazione della luce pone un limite a ciò che può essere visto.

    2) Data la validità della legge di Hubble, necessaria nei modelli teorici di Universo ricavati dalla relatività generale, risulta allora che le galassie più lontane hanno velocità di allontanamento sempre maggiori e per effetto del redshift cosmologico la loro luce tende ad essere più rossa rispetto ad analoghe galassie più vicine. Non solo. L’affievolimento della luce a causa dell’espansione dell’universo è più consistente dell’aumento del numero delle galassie con l’aumentare del volume. Il problema del paradosso era che in un universo infinito il numero di sorgenti luminose cresceva di più dell’affievolimento della loro luce con la distanza.
    L’espansione dell’Universo rovescia questa situazione rendendo più consistente l’affievolimento della luce rispetto all’aumentare degli oggetti luminosi. Ecco perché più ci si allontana dal nostro posto di osservazione e meno diventa determinante la luce degli oggetti più lontani. Il paradosso di Cheseaux-Olbers non è più un paradosso perché la moderna cosmologia ha mostrato e continua a mostrare una immagine dell’Universo totalmente diversa non solo da quella che potevano avere i Greci ma anche da quella di astronomi più moderni. Tutto ciò è stato possibile grazie da due linee di ricerca diversa ma strettamente legate. La cosmologia osservativa, avviata da Hubble con le sue misure di distanze ed analisi dello spettro della luce delle galassie ha reso evidente il moto di espansione dell’Universo oltre a mostrare proprio un universo extragalattico. La teoria generale della relatività di Einstein è stato invece lo strumento teorico per la descrizione del comportamento della materia nell’Universo.

    Naturalmente la storia della cosmologia non si ferma qui, dato che è una disciplina in continua evoluzione, tuttavia per gli scopi di queste poche righe è bene fermarsi per poter riflettere su una serie di concetti, forse nuovi a qualcuno, che non sempre sono di immediata assimilazione.

     

    Monografia n.30-1998/9


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