OCCHI SU MARTE
osservazioni del Pianeta Rosso da Hevelius alle sonde spaziali
di Paolo Morini

Partire dall’astronomo Hevelius per posare gli occhi su Marte può sembrare strano, dato che a questo astronomo non sono legate particolari osservazioni o scoperte sul pianeta rosso.

Il suo merito principale fu quello di aver costruito telescopi che, all’epoca, fornivano le immagini migliori possibili.

I primi telescopi soffrivano di molti inconvenienti che contribuivano a rendere la visione poco nitida.

Nel corso dei secoli la tecnica di lavorazione del vetro e delle lenti hanno portato a miglioramenti sempre più grandi ma a metà del 1600 l’unico sistema era quello di far formare l’immagine molto lontano dalla lente.

Hevelius fu l’iniziatore di una generazione di strumenti lunghissimi (un telescopio con il tubo lungo 10 metri era considerato normale), che richiedevano un intero gruppo di persone per essere orientati verso gli oggetti celesti (fig. 1).

fig. 1 - Telescopio di Hevelius da 60 piedi
fig. 1 - Telescopio di Hevelius da 60 piedi.

Un esperto utilizzatore di questi lunghi telescopi fu il fisico olandese Christiaan Huygens (1629 - 1695).

Fra le molte scoperte osservative che compì, gli vanno attribuiti i primi disegni di Marte che hanno mostrato segni evidenti sulla superficie del pianeta.

Osservando questi segni per un periodo di tempo abbastanza lungo, Huygens ipotizzò che Marte ruotava attorno al suo asse in circa un giorno terrestre, un valore molto vicino al vero, considerati i mezzi dell’epoca. Secondo Huygens non c’era motivo perché Marte non avesse i suoi abitanti, e ipotizzò che, nonostante «la luce e il calore che gli giungono sono la metà e talvolta tre volte minori dei nostri […] gli abitanti si sono sicuramente adattati a queste condizioni ».

Marte era comunque stato oggetto di attente osservazioni di carattere scientifico anche prima dell’introduzione degli strabilianti telescopi di Hevelius. L’astronomo danese Tycho Brahe, che fu l’ultimo grande astronomo che osservò il cielo senza telescopio, alla fine del 1500 misurò la posizione dei pianeti nel cielo servendosi delle stelle come riferimento (fig. 2).

fig. 2 - Tycho Brahe.
fig. 2 - Tycho Brahe.

Il numero e la precisione delle sue osservazioni, consentirono all’astronomo Johann Kepler di concludere che i pianeti ruotano attorno al Sole non seguendo orbite circolari ma ellittiche – l’orbita di Marte si discosta più delle altre da un cerchio, e la precisione delle osservazioni visuali di Tycho Brahe fu sufficiente a metterlo in evidenza.

In quegli stessi anni, siamo all’inizio del 1600, apparvero sulla scena i primi telescopi e, tralasciando le dispute sulla paternità dell’invenzione e su chi abbia puntato per primo il telescopio verso il cielo, lo scienziato italiano Galileo Galilei fu sicuramente il primo a capire l’importanza di ciò che stava osservando.

Galilei osservò proficuamente la Luna, scoprendone i mari e i crateri, Giove con i suoi 4 satelliti maggiori, la Via Lattea e gli ammassi di stelle, ma non riuscì a vedere granché quando osservò Marte. Purtroppo gli strumenti più potenti a disposizione di Galileo avevano lenti molto piccole, da 4 centimetri di diametro, un massimo di 30 ingrandimenti e una qualità complessiva dell’immagine così scadente, rispetto agli standard attuali, che nessun negoziante oserebbe proporci l’acquisto di un telescopio simile.

Oggi infatti a un costo molto ragionevole, paragonabile a quello di un telefonino o di una stampante per computer, si possono comprare telescopi di qualità enormemente superiore a quello di Galilei, e che utilizzano lenti, specchi o combinazioni di entrambi gli elementi ottici per formare le immagini.

Con questi strumenti chiunque può ripetere le osservazioni del grande scienziato con comodità e precisione molto maggiori.

Un altro antico osservatore di Marte, che come Galilei non vide granché, fu l’avvocato e astrofilo napoletano Francesco Fontana, che ci ha lasciato due disegni di Marte nei quali una macchia centrale e un alone scuro sul disco del pianeta sono stati causati dai difetti ottici del suo strumento.

Per tornare alla seconda metà del 1600, dopo l’identificazione delle maggiori aree scure fatta da Huygens, fu l’astronomo italiano Gian Domenico Cassini, che aveva la cattedra di astronomia all’Università di Bologna, a rilevare su Marte particolari abbastanza minuti.

Cassini determinò il periodo di rotazione del pianeta in modo discretamente accurato (24h40m) ed osservò per primo le calotte polari, zone bianche poste ai poli Nord e Sud del pianeta.

Il successivo importante contributo all’osservazione di Marte venne da Giacomo Filippo Maraldi, nipote di Cassini.

Dopo una serie di osservazioni accuratissime svoltesi all’inizio del 1700, Maraldi si convinse che le zone bianche che segnavano i poli e quelle più scure delle regioni equatoriali cambiavano di forma con il susseguirsi delle stagioni marziane.

Maraldi fu uno degli ultimi esperti utilizzatori dei lunghissimi telescopi di Hevelius: le difficoltà di costruzione e di utilizzo portarono al loro graduale abbandono come strumenti di indagine astronomica.

Dopo un altro mezzo secolo, a metà del 1700, troviamo all’opera William Herschel, un musicista tedesco trasferitosi in Inghilterra.

Incuriosito dalla possibilità di osservare il cielo notturno tramite l'uso di telescopi, anziché ricorrere alle lenti Herschel iniziò a costruirsi da solo gli specchi dei suoi telescopi riflettori, la cui teoria ottica era stata formulata da Newton ma che non avevano ancora trovato un utilizzo pratico (fig. 3).

fig. 3 - Telescopio di William Hershell.
fig. 3 - Telescopio di William Hershell.

Herschel diventò famoso nel 1871 quando annunciò di avere scoperto un altro pianeta al di là di Saturno: si trattava di Urano, inizialmente battezzato Giorgium Sidus (l’astro di Giorgio) in onore del re d’Inghilterra Giorgio III.

Visto dai suoi grandi telescopi a riflessione (il maggiore che fu realizzato aveva un diametro di 120 centimetri) Marte si rivelò un pianeta nuovo.

Herschel vide le calotte polari di Marte che, man mano che avanzava l’estate marziana, si riducevano di dimensioni - questo lo portò a pensare che si trattava di distese ghiacciate che si fondevano sotto l’azione dei raggi solari.

Dedusse la presenza di un’atmosfera analoga a quella terrestre e questo gli fece supporre che gli abitanti di Marte dovevano trovarsi in condizioni climatiche più o meno simili alle nostre.

Entro la fine del 1700, vanno ricordate anche le osservazioni di Johann Hieronymus Schroter, magistrato tedesco appassionato d'astronomia.

Così come Herschel, osservò moltissimo il pianeta ma non giunse ad ordinare le sue osservazioni per iniziare a disegnare una geografia marziana.

All’inizio dell’800 si era arrivati all’evidenza che la Terra altro non era che uno dei tanti mondi dello spazio, uno spazio che si era rivelato sempre più vasto e profondo, i cui confini erano stati ampliati moltissimo da William Herschel e dai suoi grandi telescopi.

Non essendoci alcuna nozione sulle condizioni fisiche dei pianeti ogni stranezza era permessa: essere interplanetari con più teste ed eventualmente organi intercambiabili erano comune oggetto di speculazione, e si stava formando il terreno adatto su cui far fiorire l’idea meravigliosa di una civiltà marziana rilevabile dalla Terra.

Due astronomi, William Beer e Johann Mädler, oltre ad osservare Marte cercarono di tirare le somme delle loro osservazioni e realizzarono la prima mappa di Marte.

In precedenza i due avevano realizzato una carta della Luna che rimase insuperata per molti decenni, e il disegno della mappa di Marte si giovò di questa esperienza. Stranamente, sulla mappa non appose alcun nome.

Il padre gesuita Angelo Secchi, a metà del secolo, si applicò alla definizione della forma delle macchie scure sul pianeta, e trasse la certezza che fossero dettagli stabili.

Una ulteriore mappa di Marte fu elaborata nel 1864 dall’astronomo inglese Richard Proctor, in base ai disegni dei migliori osservatori dell’epoca..

La novità principale era costituita dal fatto che la mappa non era muta come quella di Beer e Madler: ogni dettaglio aveva il nome di uno scienziato famoso del passato o anche contemporaneo.

La mappa era abbastanza grossolana e le formazioni più importanti avevano il nome di astronomi inglesi: fu quest’ultimo motivo ad attirare le maggiori critiche, soprattutto da parte degli esclusi.

Nella storia dell’osservazione di Marte il 1877 segna l’inizio degli studi sul pianeta rosso dell’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli.

Schiaparelli si rese conto che il numero di dettagli che potevano essere percepiti sul pianeta era elevatissimo e che i precedenti lavori di cartografia non rendevano ragione di quanto si poteva osservare al telescopio decise pertanto di intraprendere autonomamente lo studio della cartografia di Marte compiendo una serie di misure sul pianeta.

Schiaparelli ridisegna completamente la topografia di Marte e revisiona anche la nomenclatura, attingendo i nomi dalla geografia antica e dalla mitologia – nomi che in gran pare sono stati mantenuti fino ad oggi.

I dettagli osservati da Schiaparelli con tanta precisione sembrano mutare con il trascorrere delle stagioni marziane e in conseguenza del ritirarsi delle calotte polari presumibilmente costituite da neve e ghiaccio.

Le formazioni su Marte erano collegate da elementi rettilinei che Schiaparelli chiamò canali non era nelle sue intenzioni attribuire ai canali un’origine artificiale, pensava che fossero semplici corsi d’acqua naturali che diventavano evidenti quando le calotte polari si scioglievano.

Non ci volle molto perché queste notizie venissero riecheggiate dalla stampa come la testimonianza delle opere di creature intelligenti: i canali rappresentavano l’opera degli ingegneri marziani che avevano imbrigliato la poca acqua presente in un sistema di irrigazione su scala planetaria (fig. 4).

fig. 4 - Mappa di Schiapparelli del 1883-84.
fig. 4 - Mappa di Schiapparelli del 1883-84.

Schiaparelli stesso, in scritti non ufficiali e di divulgazione, congetturò sulla possibile esistenza dei marziani, senza tuttavia sbilanciarsi mai a livello scientifico.

Di tutt’altra indole era l’astronomo Percival Lowell (fig.5), un ricco ed eccentrico americano che si convertì all’astronomia e finanziò la costruzione di un osservatorio a Flagstaff, in Arizona, tuttora esistente, con telescopi all’avanguardia per l’epoca.

fig. 5 - Percival Lowell
fig. 5 - Percival Lowell

Dopo un anno di osservazioni, nel 1894 pubblicò il suo primo libro in cui espose le sue tesi su Marte: era un pianeta arido, dal clima desertico, che i marziani cercano di rendere meno ostile portando, con una rete di canali artificiali, l’acqua relativamente scarsa su tutto il pianeta.

Quello che si vedeva al telescopio dei canali erano le strisce della vegetazione che cresceva rigogliosa sulle sponde dei corsi d’acqua.

Dove i canali convergevano si formavano macchie scure, vere e proprie oasi nel deserto marziano e proprio dove confluiva il maggior numero di canali si trovava la capitale degli Stati Uniti di Marte.

Queste affermazioni erano destinate a sollevare molte discussioni e ben presto, a cavallo fra 800 e 900, si formarono le fazioni dei “canalisti” e degli “anticanalisti”.

Il dubbio che i canali non fossero una realtà fisica ma un effetto dell’osservazione al telescopio fu sollevato dall’astronomo italiano Vincenzo Cerulli, che ipotizzò che a causa della grande distanza del pianeta, si stava osservando ben poco della vera superficie di Marte.

La fine delle discussioni fu decretata dall’astronomo greco naturalizzato francese Eugenios Antoniadi: utilizzando uno dei maggiori telescopi del mondo, vide che su Marte non c’era alcuna geometria evidente: i canali si dissolvevano in una infinità di piccole macchie e dettagli minori che l’occhio umano, osservando attraverso telescopi meno potenti, tendeva a riunire in formazioni rettilinee.

Questo chiudeva un formidabile periodo della storia dell’astronomia a cavallo dei due secoli.

Negli anni successivi gli interessi del mondo scientifico si spostarono verso altri temi e lo studio di Marte rimase il lavoro di pochissimi astronomi professionisti.

Prima che le sonde spaziali raggiungessero Marte, fu comunque appurato che l’atmosfera di Marte era ricca di anidride carbonica e che la pressione dell’aria al suolo era bassissima, condizioni entrambe non compatibili con lo sviluppo di forma di vita superiori di tipo terrestre.

Parlare degli occhi elettronici, quelli delle sonde spaziali che si sono avvicinate a Marte dagli anni ’60 ad oggi, è un arduo compito da esaurire in poche righe, e meriterebbe uno spazio molto ampio.

Il 14 luglio 1965 la sonda Mariner 4 sorvolò la superficie di Marte senza entrare in orbita attorno al pianeta rosso: durante il passaggio ravvicinato furono scattate 22 fotografie.

Anche se le immagini coprivano si e no l’1% della superficie di Marte, e la qualità delle foto non fosse eccelsa, furono tuttavia sufficienti a far crollare le interpretazioni e le fantasie del passato.

Non c’era traccia di canali e i crateri ricordavano al più la nostra arida Luna. L’atmosfera era sottile come quella della Terra a 30 chilometri di altezza, non poteva esistere l’acqua allo stato liquido e i raggi ultravioletti del Sole la attraversavano sterilizzando continuamente il terreno i sogni di Lowell scomparivano in un remoto passato.

Con le successive missioni delle sonde Mariner il pianeta rosso venne fotografato al 100% e si aggiunsero nuove e importanti conoscenze, ma sempre nel panorama di un mondo arido e inospitale sul quale eventuali forme di vita indigena potevano presentarsi solo sotto forme molto elementari.

A metà degli anni ’70 le due sonde Viking 1 (fig. 6) e Viking 2 sbarcarono ciascuna una capsula di atterraggio su Marte.

fig. 6 - Sonda Vikyng 1.
fig. 6 - Sonda Vikyng 1.

Dopo decine di descrizioni letterarie e cinematografiche di marziani che invadevano la Terra, ironicamente il primo pianeta ad essere invaso fu proprio Marte e ad opera dei terrestri.

Le due sonde atterrate ripresero immagini ed eseguirono misure sull’atmosfera marziana. Erano inoltre equipaggiate con un laboratorio chimico nel quale un campione di suolo venne sottoposto a una serie di analisi per rilevare presenze di microrganismi: i risultati furono, per così dire, strani, nel senso che alcuni rilievi si potevano spiegare sia con la presenza di batteri che a causa di reazioni chimiche elementari. Non essendoci alcuna possibilità di ripetere gli esperimenti, prevalse lo scetticismo.

Alla fine della missione vennero raccolte oltre 55.000 immagini, tutto il pianeta era stato fotografato con una precisione tale che niente di più piccolo di 300 metri poteva essere sfuggito alle camere fotografiche.

Un altro grande balzo alla conoscenza della superficie di Marte fu impartito alla fine degli anni ’90 dalla sonda Mars Global Surveyor.

Le sue camere potevano fotografare particolari grandi pochi metri, e individuarono formazioni geologiche che alcuni ritennero un segno inequivocabile di erosione da parte di acqua liquida.

Queste immagini non sono una prova risolutiva che l’acqua, ora imprigionata sotto forma di ghiaccio nelle profondità del suolo di Marte, un giorno scorresse formando fiumi e torrenti: esperti geologi hanno formulato ipotesi alternative. Forse alcuni ricordano le foto di una formazione su Marte, ripresa dal Viking, che sembrava una faccia e che molti ufologi sostennero essere una specie di sfinge scolpita dai marziani: purtroppo la “Sfinge Marziana” non sopravvisse ai teleobiettivi di Mars Global Surveyor, che rivelarono la sua natura di collina erosa dal vento.

Un’altra delusione per i marzianofili.

Altri occhi elettronici hanno scrutato Marte, da quelli del telescopio spaziale Hubble a quelli del microscopio elettronico che, in un meteorite di origine marziana e ritrovato in Antartide, ha fotografato tracce che suggeriscono la presenza di microrganismi fossili.

Il consenso del mondo scientifico non è unanime e la discussione è ancora in corso. L’esplorazione di Marte è tuttora in corso e numerosi lanci di sonde spaziali sono programmati nei prossimi anni.

Progetti ambiziosi e a lungo termine prevedono la trasformazione radicale del pianeta in modo da renderlo abitabile e adatto per la colonizzazione da parte dell’uomo.

Circa la possibilità di incontrare la vita su Marte, 100 anni fa si dibatteva sulle conoscenze di ingegneria idraulica dei marziani creatori e gestori della rete di canali, mentre oggi è del tutto tramontata qualunque prospettiva di incontrare forme di vita evolute.

In ogni caso Marte, per la fantasia, rimane sempre un oggetto del desiderio e la sua luce rossastra sarà sempre in grado di evocare storie fantastiche.

 

Monografia n.92-2003/9 (seconda parte)


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