C’È VITA SU MARTE ?
di Marco Marchetti

vignetta

 

INTRODUZIONE

Tra il 14 e il 15 agosto 1965 la sonda statunitense Mariner 4, dopo un viaggio di sette mesi e mezzo, sorvolò il pianeta rosso passando alla minima distanza di 9.846 chilometri e di lì a poco cominciarono ad arrivare le prime immagini in assoluto della superficie del pianeta.

Per molti scienziati l’euforia per il completo successo della missione si trasformò ben presto in un’autentica doccia fredda. Infatti da secoli Marte era considerato un pianeta molto simile alla Terra; alcune caratteristiche del pianeta (come la durata del giorno o l’inclinazione dell’asse di rotazione) sono molto simili a quelle terrestri e la scoperta (peraltro mai confermata) dei famosi canali da parte dell’italiano Schiaparelli avevano fatto pensare ad una notevole somiglianza fra Marte e la Terra.

Marte era inoltre entrato di prepotenza anche nella cultura popolare grazie ad un numero sterminato di racconti e romanzi di fantascienza e a film come “Ultimatum alla Terra” (1951) e “La guerra dei mondi” (1953) tant’è che nel linguaggio comune non esistono parole come extraterrestre, alieno, venusiano o gioviano ma, per indicare un ipotetico abitante di altri mondi, viene comunque utilizzato il termine marziano.

Questo retaggio culturale, frutto di secoli di osservazioni telescopiche e di speculazioni scientifiche e non, fu spazzato via in poche settimane; le immagini del Mariner 4 mostravano una superficie arida, brulla e fortemente craterizzata. “MARTE COME LA LUNA” titolò qualche giornale.

Le immagini inviate successivamente dalla sonda Mariner 9 (1971), dalle due sonde Viking (1976), da Pathfinder (1997) e dalla Mars Global Surveyor (1998) confermarono questo stato di cose; Marte risultò essere un pianeta molto complesso completamente diverso dalla Terra, come aveva mostrato Mariner 4, ma anche diversissimo dalla Luna. Tutte le immagini sembrano però concordare su un fatto: il pianeta rosso non ha propriamente l’aspetto di un posto adatto ad ospitare forme di vita.

Infine arriva il 1996 e l’annuncio choc dell’allora presidente americano Bill Clinton destinato a scatenare un vespaio internazionale che non si è ancora placato: «IN PASSATO SU MARTE C’È STATA VITA E NOI NE ABBIAMO LE PROVE».

Ma allora su Marte c’è o non c’è vita? E se non c’è vita ora c’è stata in passato?

 

UNO SGUARDO AL PIANETA ROSSO

Marte è il quarto pianeta del sistema solare in ordine di distanza dal Sole dal quale dista mediamente 220 milioni di chilometri (per contro la Terra ne dista 150); per compiere un giro attorno alla nostra stella il pianeta impiega 687 giorni terrestri. Marte è un pianeta molto piccolo; infatti la sua superficie non supera quella dell’oceano Atlantico.

La durata del giorno marziano (cioè il tempo impiegato dal pianeta a ruotare su stesso) di 24 ore e 37 minuti, un’inclinazione dell’asse di rotazione sul piano dell’orbita tale da consentire l’esistenza di stagioni analoghe a quelle terrestri e la presenza di due calotte polari le cui dimensioni variano con l’alternarsi delle stagioni sono le analogie con la Terra che hanno fatto sognare intere generazioni di astronomi e non. Inoltre la presenza sulla superficie del pianeta di vaste zone scure anch’esse di Ungheria: Marte  e telescopio di Monte Palomardimensioni variabili al variare delle stagioni fece pensare alla presenza di vegetazione. Addirittura secondo il grande astronomo francese Camille Flammarion (1842 - 1925) la causa del tipico colore rossastro del pianeta andava ricercata proprio nella presenza di vegetazione.

Il 1877 fu per Marte un anno memorabile; in quell’anno il pianeta raggiunse uno dei punti più vicini alla Terra e di conseguenza da ogni parte del mondo decine di telescopi vennero puntati nella sua direzione per sfruttare questa favorevolissima occasione. Proprio in quell’anno l’astronomo americano Asaph Hall (1829 - 1907) scoprì Phobos e Deimos, i due piccoli satelliti del pianeta, ma la vicenda sotto certi aspetti più importante fu quella che vide come protagonista l’astronomo italiano Giovanni Virginio Schiaparelli (1835 - 1910) allora direttore dell’osservatorio di Brera.

Schiaparelli vide (o forse credette di vedere) una serie di linee scure, più o meno spesse, che solcavano la superficie del pianeta; queste linee vennero battezzate “canali” riprendendo una terminologia già usata in precedenza da Padre Angelo Secchi (1818 - 1878) per descrivere alcuni particolari del disco di Marte. Molto prudentemente Schiaparelli utilizzò il termine inglese “channels” che indica un’origine naturale non escludendo comunque un’eventuale origine artificiale.

Molto più azzardato ed esplicito fu, invece, l’americano Percival Lowell (1855 - 1916) il quale utilizzò il vocabolo “canals” che indica un’origine artificiale e, in questo modo, cominciò a portare avanti la sua battaglia personale a favore dell’esistenza di una civiltà marziana tecnologicamente progredita che, secondo l’audace astronomo americano, avrebbe costruito la fitta rete di canali per convogliare l’acqua dalle calotte polari alle più aride regioni equatoriali. Lowell era anche un abilissimo divulgatore e scrisse alcuni libri di grande successo: “Mars” (1895), “Mars and its canals” (1906) e “Mars as the abode of life” (1908)(1) nei quali portava avanti le sue idee; addiritura arrivò a sostenere di avere localizzato oasi e grandi città marziane verso le quali i canali convergevano a raggiera. Queste opere esercitarono una grande influenza sul grande pubblico e l’idea che Marte potesse essere un pianeta abitato fece subito molta presa.

In una enciclopedia per ragazzi, sulla quale lo scrivente da bambino passava molte ore, si parla esplicitamente di Marte e dei suoi canali con illustrazioni di possibili paesaggi marziani che parlano da sole. Rileggere queste pagine a quasi quarant’anni di distanza fa un pò tenerezza.

A livello scientifico le affermazioni di Lowell scatenarono furiose polemiche poiché nessun’altro riusciva a discernere sul disco di Marte la benchè minima traccia di canali; in altre parole quei benedetti canali li videro solo Schiaparelli, Lowell e pochi intimi.

La diatriba fu risolta definitivamente dal Mariner 4. Le ventuno immagini inviate dalla sonda americana, che coprivano l’uno per cento della superficie del pianeta, mostrarono in maniera inequivocabile che i canali di Marte e la presunta civiltà che li aveva costruiti erano pura fantasia.

C’è allora da chiedersi che cosa abbiano realmente visto Schiaparelli e Lowell. Sulla serietà professionale dei due non ci sono dubbi; probabilmente l’utilizzo di strumenti non proprio perfetti spinti al limite delle loro capacità ed una certa predisposizione mentale a cercare di osservare a tutti i costi ciò che conferma le proprie teorie hanno giocato un brutto scherzo ai due astronomi. Inoltre Schiaparelli, ingegnere di formazione, era rimasto molto colpito e affascinato dall’apertura del canale di Suez (1869) e può darsi che inconsciamente questo fatto abbia influito sulle sue osservazioni di Marte.

Con l’avvento delle sonde interplanetarie le nostre conoscenze su Marte sono aumentate in maniera esponenziale. Il Mariner 4 fu seguito da altre missioni preparatorie per un evento senza precedenti: la messa in orbita di una sonda attorno ad un pianeta diverso dalla Terra. Tale onore toccò al Mariner 9 il 14 novembre 1971; la missione si concluse il 27 ottobre 1972.

Durante questo tempo la sonda inviò a Terra una mole impressionante di dati fra i quali spiccano 7.329 immagini che coprivano l’intera superficie del pianeta. Queste immagini mostrano la presenza di enormi vulcani (come Mons Olympus alto 25 chilometri con una circoferenza di base di 600 chilometri), enormi bacini da impatto, zone fortemente craterizzate, letti di antichissimi fiumi (che non sono i canali di Lowell e Schiaparelli poiché troppo piccoli per potere essere osservati da Terra), giganteschi cañon e tempeste di polvere più o meno estese che potevano rendere conto delle variazioni superficiali originariamente attribuite alla presenza di vegetazione.

Però se le sonde Mariner avevano escluso in maniera categorica l’esistenza di una civiltà marziana restava sempre la possibilità che su Marte fosse presente qualche forma di vita microscopica. Il compito di chiarire questo aspetto sarebbe toccato qualche anno più tardi alle sonde Viking 1 e 2.

 

LE SONDE VIKING

USA: Viking mission to MarsLa missione Viking rappresentò il progetto più ambizioso intrapreso dalla NASA dopo il progetto Apollo: due sonde gemelle Viking 1 e Viking 2, composte entrambe da una parte destinata a rimanere in orbita attorno al pianeta (orbiter) e da una parte predisposta a posarsi sulla sua superficie (lander), partirono alla volta di Marte il 20 agosto e il 9 settembre 1975.

Dopo una tranquilla crociera interplanetaria di dieci mesi Viking 1 entrò in orbita attorno a Marte il 19 giugno 1976 e cominciò a scattare una serie di fotografie per individuare un sito favorevole per l’atterraggio (o forse sarebbe meglio dire ammartaggio); il punto venne finalmente individuato e il 20 luglio 1976 il lander si separò dall’orbiter e dopo tre ore di discesa si posò sulla superficie marziana alle ore 11:53 di Tempo Universale(2). La sonda gemella entrò in orbita il 7 agosto 1976 e il relativo lander planò sul suolo marziano alle ore 22:38 di Tempo Universale del 3 settembre in un punto situato a circa 7 mila chilometri dal Viking 1.

Immediatamente arrivarono a Terra le prime splendide immagini della superficie del pianeta e tutta una serie di dati chimici e fisici del suolo marziano. Non è questa la sede per illustrare in dettaglio i risultati delle sonde Viking; per far ciò occorrerebbe un volume di notevoli dimensioni. Noi citeremo solo qualche dato fra i più significativi.

Viking 1 registrò temperature minime di –83°C e massime di –33°C mentre Viking 2 situato più a nord rilevò temperature fino a 10°C inferiori; la temperatura massima, rilevata dagli orbiter, risultò essere di 22°C. La pressione atmosferica risultò minima durante l’estate (670 – 740 Pa)(3) e massima durante l’inverno (800 – 1000 Pa) mentre l’atmosfera risultò essere composta per il 95% da biossido di carbonio. Le immagini mostrano una superficie desertica di sabbia rossastra costellata di pietre di tutte le dimensioni.

Comunque la novità assoluta della missione Viking fu che ambedue i lander erano corredati di un braccio meccanico in grado di prelevare campioni del suolo e di un piccolo laboratorio interno in grado di compiere alcuni semplici esperimenti per evidenziare la presenza di vita microscopica.

I lander eseguirono tre tipi di esperimenti. Il primo fu quello dello “scambio di gas”: ai campioni di suolo marziano veniva aggiunto del brodo nutriente e si cercava di rilevare se veniva emesso qualche gas. Prima dell’aggiunta delle sostanze nutrienti i campioni furono esposti al vapor d’acqua e, con grande sorpresa degli scienziati, venne rilevata una intensa emissione di ossigeno con tracce di azoto e biossido di carbonio. Se i campioni venivano preriscaldati a 145°C, una temperatura sufficiente a uccidere qualsiasi microbo terrestre, l’emissione di ossigeno diminuiva ma non si azzerava. Quando veniva aggiunto il brodo nutriente gli scienziati rilevarono alcuni scambi di gas ma la situazione rimase alquanto confusa; ciò che sembrava chiaro era che il suolo marziano è fortemente reattivo chimicamente e i risultati ottenuti potevano essere spiegati anche senza la presenza di microorganismi marziani anche se, a dire il vero, l’esperimento non ne escludeva affatto l’esistenza.

Il secondo esperimento fu quello della “emissione marcata” (LR, Labeled Release): anche in questo caso ad un campione di suolo marziano veniva aggiunto un brodo nutriente, solo che in questo caso il brodo conteneva carbonio radioattivo. L’idea era che se il carbonio radioattivo veniva metabolizzato dai microorganismi marziani si sarebbe dovuto assistere ad una emissione di biossido di carbonio anch’esso radioattivo e quindi facilmente rilevabile. In questo caso l’esperimento diede esito nettamente positivo; inoltre se i campioni venivano preriscaldati l’emissione di biossido di carbonio cessava bruscamente proprio come se i responsabili dell’emissione fossero stati microorganismi.

Il terzo esperimento fu quello della “assimilazione di biossido di carbonio”: i campioni di suolo marziano venivano esposti ad una atmosfera di biossido di carbonio radioattivo e ad una forte luce per simulare la luce del Sole. Lo scopo era quello di verificare se gli eventuali microorganismi marziani estraessero il carbonio dal biossido di carbonio al pari degli organismi fotosintetizzatori terrestri. L’esperimento ha dato esito positivo in parecchi casi anche se il preriscaldamento dei campioni non azzerava del tutto la risposta.

Riassumendo, dal punto di vista della possibilità della presenza di vita i risultati degli esperimenti sembravano molto promettenti: un esperimento (quello dell’emissione marcata) con esito positivo e gli altri due con risultati ambigui. Eppure gli scienziati che seguirono gli esperimenti furono concordi nel trarre la conclusione che Marte è un pianeta biologicamente morto. Questa pessimistica conclusione era soprattutto dovuta al fatto che ulteriori analisi del suolo marziano non avevano trovato alcuna traccia di materiale organico il che è piuttosto strano; infatti, a prescindere dal fatto che su Marte ci sia vita o meno, una certa quantità di molecole organiche deve comunque arrivare dallo spazio (si pensi che tracce di materia organica sono presenti perfino sulla Luna dove sono arrivate a bordo di meteoriti). Di conseguenza, secondo gli scienziati della NASA, una insolita chimica di un suolo fortemente reattivo e ossidante spazzato da una violenta radiazione ultravioletta che vi giunge indisturbata poteva benissimo spiegare i risultati degli esperimenti condotti.

Una cosa va comunque sottolineata. Anche ammettendo la negatività dei risultati degli esperimenti, la presenza di forme di vita non è affatto esclusa del tutto; potrebbe darsi che le ricerche siano state fatte nei posti sbagliati, potrebbe darsi che piccole colonie di batteri si annidino in nicchie presso i vulcani oppure presso le calotte polari oppure potrebbe anche essere che la concentrazione di microrganismi nel suolo marziano sia di molto inferiore a quella dei batteri terrestri. Qualcuno ha fatto notare, per esempio, che una concentrazione di un milione di microbi per grammo di suolo marziano sarebbe passata inosservata.

Inoltre anche l’interpretazione dei risultati degli esperimenti non è mai stata accettata da tutti.

Per esempio Gilbert V. Levin, l’ideatore del test dell’emissione marcata, ha da sempre sostenuto che il suo esperimento ha fornito la prova inequivocabile che su Marte c’è vita; in particolare Levin sostiene che il suo esperimento era più sensibile di quello che ha escluso la presenza di materiale organico. A sostegno della sua tesi Levin ricorda che in un esperimento analogo condotto a Terra nella Valle della Morte il suo esperimento ha rilevato la presenza di batteri dove l’altro aveva dato esito negativo.

Inoltre una rivisitazione del risultati delle sonde Viking compiuta a venticinque anni di distanza (2001) dal neurobiologo Joseph D. Miller dell’Università della California del Sud ha sollevato un ulteriore vespaio. L’analisi con moderne tecniche statistiche dei risultati di un esperimento di emissione marcata condotto per più di novanta giorni marziani di seguito ha permesso di scoprire, secondo Miller, una oscillazione periodica dell’emissione di biossido di carbonio con un periodo di 24,66 ore coincidente con la durata del giorno marziano. Secondo Miller è un fenomeno circadiano, indice di attività batterica.

L’unica cosa certa è che se si potessero effettuare delle analisi del suolo marziano direttamente nei laboratori terrestri i risultati sarebbero sicuramente meno ambigui. Un aiuto in tal senso sarebbe arrivato da una direzione del tutto inaspettata.

 

ALH84001

Per i cacciatori di meteoriti l’Antartide è un autentico paradiso; le desolate pianure ricoperte di neve del continente bianco sono l’ideale per la ricerca delle pietre che piovono dal cielo. Infatti i meteoriti che cadono sul ghiaccio vengono subito ricoperti dalla neve ma, a causa dei lenti spostamenti dei ghiacci e delle masse nevose, possono in seguito riaffiorare in superficie dove sono facilmente individuabili.

Nel 1984 Roberta Score, allora membro della United States Antartic Search for Meteorites, era stata inviata assieme ad alcuni colleghi in Antartide alla ricerca di meteoriti. Verso mezzogiorno del 27 dicembre la Score fermò il suo gatto delle nevi nella zona delle Allan Hills (4) per ammirare una curiosa formazione di ghiaccio. La sua attenzione fu subito catturata da una pietra che affiorava dalla neve; la ricercatrice sapeva bene che quando si trova una pietra in mezzo alla neve antartica l’unico posto da cui può essere arrivata è il cielo. A parte un insolito colore verdastro il meteorite non aveva nulla di particolare cosicché andò a far compagnia agli altri (oltre un centinaio) che erano stati trovati durante la spedizione.

Roberta Score era ben lontana dall’immaginare il putiferio internazionale che quel ritrovamento avrebbe scatenato dodici anni più tardi.

A causa del suo colore verde il meteorite fu il primo ad essere analizzato e fu battezzato con la sigla ALH84001 (Allan Hills, 1984, 1°); ad una prima analisi il meteorite non mostrò nulla di strano e fu classificato come un normale meteorite proveniente dalla fascia degli asteroidi, la zona ricca di detriti che si trova fra le orbite di Marte e di Giove. Ulteriori analisi condotte nel 1988 evidenziarono che, invece, qualcosa di strano c’era ma i risultati furono male interpretati.

Solo nel 1993 la vera natura di ALH84001 fu svelata; altro che fascia degli asteroidi: ALH84001 è un meteorite marziano. Con tutta probabilità è stato scaraventato nello spazio a causa dell’impatto di un asteroide o una cometa con la superficie di Marte e dopo un lungo viaggio interplanetario è piombato sulla Terra e lì è rimasto fino al momento della sua scoperta.

Dopo che ne fu chiarita l’origine, ALH84001 fu sottoposto ad una serie di accuratissime analisi grazie alle quali i ricercatori della NASA sono riusciti a ricostruirne la storia. Innanzitutto l’età; a differenza degli altri meteoriti marziani ALH84001 è molto antico: in base al decadimento radioattivo degli elementi rubidio e samario è stato scoperto che la roccia si è solidificata circa quattro miliardi e mezzo di anni fa, subito dopo la formazione del pianeta. La roccia presenta alcune fratture indice del fatto che, dopo la sua formazione, un evento traumatico (probabilmente un impatto avvenuto nelle sue vicinanze) l’aveva spaccata e in parte rifusa; con il metodo del decadimento radioattivo del potassio in argo si è scoperto che ciò deve essere avvenuto circa quattro miliardi di anni fa.

Durante la permanenza nello spazio un meteorite è continuamente sottoposto al bombardamento di particelle provenienti dal Sole e dallo spazio in generale; l’interazione fra la radiazione cosmica e il meteorite produce nuovi isotopi dall’abbondanza dei quali si può risalire a quanto tempo il meteorite ha vagabondato nello spazio. Nel caso di ALH84001 si è trovato un valore pari a sedici milioni di anni.

A questo punto diventava cruciale conoscere quanti anni fa il meteorite era caduto sulla Terra. Anche in questo caso la fisica nucleare ci viene in aiuto; durante la permanenza nello spazio uno degli isotopi che viene prodotto è il carbonio-14. Dopo l’arrivo sulla Terra la produzione di questo isotopo si arresta e la quantità presente comincia a decadere a ritmo costante; la misurazione di quanto carbonio-14 era decaduto ha permesso di scoprire che ALH84001 cadde sul nostro pianeta circa 13 mila anni fa.

Riassumendo ALH84001 è nato circa quattro miliardi e mezzo di anni fa e, a parte uno spavento in gioventù (le fratture e la parziale rifusione), ha vissuto un’esistenza tranquilla fino a circa sedici milioni di anni fa quando un impatto cosmico l’ha scaraventato nello spazio; dopo un lungo viaggio interplanetario è stato catturato dalla gravità terrestre ed è piombato in Antartide circa 11 mila anni prima di Cristo dove è rimasto fino all’arrivo di Roberta Score nel 1984.

Ma il bello doveva ancora venire. Il meteorite fu preso in consegna da un gruppo di nove ricercatori provenienti da diversi istituti guidati da David McKay (NASA) per ulteriori analisi. In fondo alle fratture vennero scoperti dei piccoli globuli di carbonato di calcio simili a calcare; carbonato di calcio vuol dire, fra l’altro, presenza di acqua. La determinazione dell’età dei globuli, pur molto incerta (fra 3,6 e 1,4 miliardi di anni fa), dimostrava che la loro formazione era molto antecedente all’arrivo del meteorite sulla Terra; di conseguenza il loro studio poteva fornire importantissime informazioni sulle condizione di Marte in passato. Analisi molto accurate mostrarono globuli stratificati di lunghezza variable da 25 nanometri (5) a un decimo di millimetro ricoperti da un materiale ricco di ferro comprendente solfuro di ferro e magnetite.

La presenza contemporanea di questi elementi non era facilmente spiegabile e i ricercatori si spremettero le meningi per cercare di capire come si fossero prodotti; poi uno di loro fece notare che, se la roccia fosse stata di origine terrestre, la risposta poteva essere molto semplice: l’attività di batteri.

Il dado era stato tratto: quella particolare combinazione di materiali poteva essere il risultato dell’azione di antichissimi batteri marziani?

L’idea era affascinante e suggestiva ma occorrevano altre prove; senza ulteriori riscontri non ci avrebbe creduto nessuno.

La prossima mossa fu quella di cercare un particolare tipo di idrocarburi (idrocarburi policlinici aromatici) che si sa essere prodotti da organismi in decomposizione. La ricerca ebbe esito positivo e inoltre venne constatato che la concentrazione degli idrocarburi aumentava dall’esterno verso l’interno del meteorite segno evidente che non erano frutto di una contaminazione terrestre. Questo è comunque solo un indizio poiché questo tipo di idrocarburi può essere prodotto anche da processi chimici inorganici.

Di lì a poco arrivò la scoperta più sensazionale (e in seguito più contestata): attraverso un microscopio elettronico gli scienziati videro, attaccati ai globuli di carbonato, migliaia di corpuscoli simili a microscopici salsicciotti. Secondo i ricercatori che condussero le analisi questi corpuscoli sono nientemeno che antichissimi batteri marziani fossilizzati.

I risultati delle analisi vennero così divulgati (1996) e fecero il giro del mondo; intervenne di persona l’allora presidente americano Bill Clinton, il suo vice Al Gore e la NASA rivide al rialzo gli stanziamenti per ulteriori missioni verso Marte.

L’eco della notizia non si era ancora placato che puntualmente arrivarono le prime contestazioni ai risultati delle indagini su ALH84001. Il lavoro del gruppo di McKay fu aspramente criticato in ogni sua parte; il carbonato si sarebbe depositato a temperature troppo elevate, non era possibile escludere del tutto la possibilità di una contaminazione terrestre per quanto riguarda la presenza degli idrocarburi e, soprattutto, i presunti batteri fossili avevano dimensioni troppo piccole per qualsiasi essere vivente.

In effetti i presunti batteri marziani hanno dimensioni (50 nanometri) che sono cento volte inferiori a quelle della maggior parte dei batteri terrestri e ci si può chiedere se organismi così piccoli siano in grado di svolgere le più elementari funzioni vitali. La maggioranza dei microbiologi dice di no ma c’è chi la pensa diversamente: nel 1990 R.L. Folk e F.L. Lynch (Università del Texas) hanno rintracciato in concrezioni calcitiche risalenti al Pleistocene (6) alcune minuscole forme fossili lunghe solo 100 nanometri che sono state interpretate come l’impronta fossile di antichissimi nanobatteri. Come sempre non tutti concordano con questa interpretazione ma se dovesse risultare corretta sarebbe la prova che, in tempi remoti, anche sul nostro pianeta esistevano microorganismi di dimensioni paragonabili a quelli (presunti) marziani.

Ovviamente le reazioni non sono state tutte negative. Un gruppo di ricercatori della Britain’s Open University fece notare che nel 1989 era stato pubblicato uno studio su un altro meteorite marziano, EETA79001, all’interno del quale era stato rinvenuto materiale organico «indistinguibile dai componenti terrestri di origine biologica». Da notare che EETA79001 ha “solo” 200 milioni di anni.

La discussione, sempre molto accesa, dura tuttora.

 

IN VOLO DA MARTE: SIAMO TUTTI MARZIANI ?

Il dibattito attorno all’ormai celeberrimo ALH84001 ha comunque stimolato nuovi studi e ricerche.

A prescindere dalla presenza o meno di tracce di vita fossile sul meteorite alcuni ricercatori si sono domandati se, almeno in linea di principio, è possibile che microrganismi vivi riescano a superare le mille difficoltà di un viaggio interplanetario a bordo di un meteorite. Principalmente gli eventuali microrganismi dovrebbero resistere al calore generato dall’impatto che provoca il distacco dalla superficie marziana del meteorite, dovrebbero riuscire a sopportare migliaia di anni di permanenza nello spazio e infine dovrebbero riuscire a superare indenni il passaggio attraverso l’atmosfera terrestre.

Alcuni studi mostrano che, in particolari condizioni, il distacco da Marte e l’arrivo sulla Terra possono essere meno traumatici di quanto si possa pensare; per quanto riguarda la permanenza nello spazio è stato dimostrato che i batteri terrestri sono particolarmente resistenti sia alle basse temperature che all’esposizione di radiazioni.

Ma una volta che un frammento di roccia si è staccato dalla superficie marziana ed è finito nello spazio che probabilità ha di raggiungere la Terra? Simulazioni al computer indicano che il 7,5% delle rocce espulse da Marte arriva sul nostro pianeta, una percentuale analoga piomba su Venere, il 38% finisce la sua corsa sul Sole, il 9% ritorna su Marte e il resto si disperde in direzione di Giove e dello spazio esterno. I tempi di permanenza nello spazio accertati vanno dai 16 milioni di anni di ALH84001 ai 700 mila anni di EETA79001 ma le simulazioni al computer indicano, in condizioni particolarmente favorevoli, anche tempi di “soli” 16 mila anni. È possibile che microrganismi riescano a sopravvivere per tutto questo tempo nello spazio?

Se prendiamo come riferimento i batteri terrestri la risposta potrebbe essere affermativa. Infatti i batteri nostrani sembrano avere sette vite come i gatti; spesso gli archeologi scoperchiano tombe e scoprono spore batteriche risalenti alla loro costruzione e sono stati ritrovati microrganismi vivi nello scheletro di un mastodonte vissuto 11 mila anni fa. In condizioni di freddo estremo i tempi di sopravvivenza sono molto più lunghi: nel permafrost (7) della Siberia sono stati scoperti microrganismi risalenti a tre milioni di anni fa e sono state diffuse notizie di batteri conservatisi per centinaia di milioni di anni in strati di sale.

Se il viaggio nello spazio di microrganismi vivi è teoricamente possibile si aprono nuovi orizzonti ricchi di affascinanti prospettive.

Marte oggi è un pianeta arido e desolato ma le immagini trasmesse da Mariner 9, dagli orbiter di Viking 1 e 2, da Mars Global Surveyor e attualmente da Mars Odissey 2001 mostrano indiscutibilmente che non è sempre stato così. Queste immagini raccontano storie di antichissimi fiumi di svariate dimensioni, di bacini un tempo colmi d’acqua, di isole dalla caratteristica forma a goccia e di inondazioni di notevoli proporzioni.

Durante le prime fasi della sua vita Marte doveva dunque essere un pianeta ricco di acqua; inoltre ci sono prove di presenza di acqua in tempi molto più recenti. Sembra che periodicamente un qualche evento (probabilmente un impatto cosmico) provochi fuoriuscite di grandi quantità di acqua e conseguenti inondazioni. È infatti ormai accertata la presenza di una notevole quantità di acqua sotto forma di permafrost appena al di sotto della superficie marziana.

Di conseguenza se Marte un tempo aveva una atmosfera più densa ed era ricco di acqua in superficie e se il viaggio nello spazio è possibile giungiamo alla conclusione che in passato il pianeta rosso deve sicuramente avere ospitato la vita. Infatti le possibilità sono due: o la vita si è originata spontaneamente oppure è arrivata dalla Terra a bordo di meteoriti; infatti se è possibile il viaggio da Marte alla Terra deve essere possibile anche il tragitto opposto.

Esiste una ulteriore affascinante possibilità: la vita ha avuto origine solo su Marte ed è arrivata sulla Terra a bordo di meteoriti come ALH84001. Se questa ipotesi dovesse risultare corretta le implicazioni sarebbero a dir poco sconvolgenti poiché avremmo dimostrato definitivamente che Percival Lowell aveva ragione. I marziani esistono veramente: tutti noi siamo marziani.

 

EPILOGO

Dovrebbe apparire chiaro che la parola fine sul problema della vita su Marte è ancora ben lungi dall’essere scritta.

Occorreranno nuove missioni e nuove esplorazioni della sua superficie per cercare di sbrogliare questa intricata matassa. Al tempo in cui queste righe vengono scritte (luglio 2003) sono appena partite verso Marte due sonde gemelle della NASA, Mars Esploration Rovers, e la prima sonda europea, Mars Express. Le sonde sganceranno dei moduli in grado di muoversi sulla superficie marziana alla ricerca di permafrost e di tracce di vita biologica.

Se dovesse essere provata l’esistenza di una vita marziana presente o passata indipendente da quella terrestre le implicazioni sarebbero veramente grandi.

Ancora oggi non sappiamo se la vita è un fatto casuale oppure se è una logica conseguenza delle leggi della fisica che governano il cosmo.

Se si riuscisse a dimostrare che forme viventi si sono originate e sviluppate in maniera autonoma su due pianeti diversi sarebbe un indizio molto importante a favore dell’ipotesi che l’emergere della vita non è casuale ma fa parte di un disegno molto più vasto e grandioso. In questo caso il nostro universo dovrebbe pullulare di esseri viventi, una prospettiva sicuramente più affascinante di quella che vede un universo in cui le uniche forme di vita sono quelle presenti sul pianeta Terra.

 

Monografia n.91-2003/8


 

Note a “C’È VITA SU MARTE?” :

1. In italiano “Marte”, “Marte e i suoi canali”, “Marte, dimora della vita”.

 

2. Il Tempo Universale (TU) è il tempo corrispondente al meridiano di Greenwhich; il tempo in Italia è un’ora in avanti (due in presenza dell’ora legale) rispetto al Tempo Universale.

 

3. Il Pascal (Pa) è l’unità di misura standard della pressione e corrisponde alla pressione esercitata da una forza di un Newton su una superficie di un metro quadrato; equivale ad un centesimo di millibar.

 

4. Colline Allan.

 

5. Il nanometro corrisponde a un miliardesimo di metro cioè un milionesimo di millimetr

 

6. Periodo geologico compreso fra due milioni e diecimila anni fa

 

7. Acqua ghiacciata mista a terriccio.

 

Monografia n.91-2003/8


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