MESSAGGERA DEL CIELO: LA LUCE
di Oriano Spazzoli


Angelo Secchi, 1818 - 1878.
Astronomo italiano gesuita, nato a Reggio Emilia, nel 1849 divenne direttore dell’Osservatorio del
Collegio Romano. Fu tra i grandi pionieri della spettroscopia stellare, classificando le stelle in
quattro tipi (sistema soppiantato in seguito da quello di Harvard) di cui a pagina 4. Fu un’autorità
anche nelle ricerche solari e altrettanto eccellenti furono le sue osservazioni dei pianeti.
Nel centenario della morte le poste Vaticane emisero tre valori. in questo (220 lire) compare un
ritratto dell’astronomo, una spettroscopia solare (in alto), una protuberanza (in basso) e uno spettrografo.

Quando Archimede (secondo la versione forse fantastica di alcuni antichi storiografi) incendiò alcune navi Romane durante l'assedio di Siracusa volgendo verso di essa grandi specchi che vi riflettevano la luce del Sole concentrandola, si era dunque già in grado di assegnare alla luce la capacità di agire sulla materia, ma non si poteva certo immaginare che in questa interazione dalla complessa natura sarebbe stata in futuro racchiusa una delle chiavi del mistero dell'universo.

Per altri 2000 anni la luce recò all'uomo la ragione degli spostamenti del Sole, della Luna e dei pianeti nel cielo rispetto alle stelle e delle stelle rispetto all'asse del mondo; ma il loro diverso brillare e il loro diverso apparire continuarono ad essere attribuite alla gloria e alla virtù divine nonché alla Somma Volontà di ripartirle diversamente nell'universo.

Da sempre l'occhio era stato l'unica via per giungere alla conoscenza del cielo, una conoscenza limitata e imprecisa, come confusi e irrisolti apparivano agli antichi astronomi i gruppi dei stelle più deboli e la stessa Via Lattea. Nulla dunque lasciava pensare che oltre la rigida ed eterna sfera delle “stelle fisse” vi fosse altro universo esplorabile.

 

Galileo e l'astronomia con il telescopio

Quando Galileo Galilei per primo utilizzò uno strumento ottico costituito da uno stretto tubo rastremato, lungo poco meno di un metro chiuso agli estremi da due lenti biconvesse (il canocchiale), divenne chiaro in breve che l'universo era più grande e complesso di come si era sempre creduto: il fatto che Giove fosse al centro di un sistema di quattro lune, il fatto che Venere si mostrasse alla Terra con una sequenza di fasi e di luminosità compatibile soltanto con una sua rotazione intorno al Sole, che la superficie solare apparisse punteggiata da macchie scure, che la Luna fosse rocciosa e montuosa come la Terra e che la Via Lattea fosse in realtà costituita da una grande quantità di stelle furono gli elementi che cambiarono la visione del cielo proiettando l'uomo oltre i propri limiti.

Il canocchiale permetteva di ricevere più luce dell'occhio perché la sua lente anteriore, l'“obiettivo”, era molto più grande della pupilla (il cui diametro medio è di mezzo centimetro, mentre il diametro dell'obiettivo del primo canocchiale con cui Galileo studiò il moto dei satelliti di Giove era di 3 cm) e al tempo stesso di ingrandire l'immagine per mezzo della lente posteriore (quella cui si accostava l'occhio, detta appunto “oculare”): ciò rendeva visibili oggetti che non lo erano ad occhio nudo perché poco luminosi, e al tempo stesso aumentava il modesto potere risolutivo dell'occhio (circa un primo d'arco, cioè 1/60 di grado) permettendo di distinguere stelle indistinguibili per l'occhio. Il canocchiale viene anche denominato telescopio “rifrattore” in quanto il suo principio di funzionamento è legato alla deviazione che un raggio di luce subisce nel passare da un mezzo materiale ad un altro mezzo di densità diversa, fenomeno ottico denominato “rifrazione”; è la doppia rifrazione dovuta al passaggio dall'aria al vetro in entrata e dal vetro all'aria in uscita, che determina effetti tipici dell'utilizzazione di lenti biconvesse, quali la concentrazione dei raggi luminosi provenienti da una sorgente in uno stesso punto detto “fuoco” o l'ingrandimento delle immagini.

Verso la fine del XVII secolo, sviluppando un'idea di Sagredo (amico di Galileo divenuto personaggio del “Dialogo sui Massimi Sistemi del mondo”), Isaac Newton e J. D. Cassegrain realizzarono modelli di telescopi che utilizzavano come obiettivo, al posto delle lenti, specchi concavi; nasce il telescopio “riflettore”. Grazie alle osservazioni fatte con un telescopio riflettore, William Herschel nel XVII secolo scoprì Urano, il settimo pianeta del sistema solare, ed effettuò le prime stime della composizione stellare e delle dimensioni della Via Lattea per realizzare poi il primo modello della nostra galassia.

Rispetto ai telescopi rifrattori i telescopi riflettori offrivano agli astronomi la possibilità di realizzare strumenti di dimensioni maggiori (quindi in grado di ricevere una maggior quantità di luce sull'obiettivo), in quanto rifrattori di grandi dimensioni esponevano al rischio di difetti di costruzione che avrebbero determinato imperfezioni di natura cromatica nell'immagine. Uno di questi difetti, la cosiddetta “aberrazione cromatica” (iridescenza provocata da irregolarità della forma della lente), rilevato da Newton, divenne successivamente lo spunto per una profonda riflessione sulla natura della luce.

 

Dalla scomposizione della luce bianca agli spettri

Newton aveva scoperto quindi che la luce bianca poteva essere scomposta nei colori dell'iride mediante la rifrazione di un raggio luminoso attraverso uno strato di vetro delimitato da superfici inclinate l'una rispetto all'altra; la luce di colori diversi dunque veniva rifratta in maniera diversa e ciò provocava, nel caso di imperfezioni nella forma delle lenti di un canocchiale, la formazione di immagini dello stesso oggetto con i colori dell'iride, collocate su piani diversi. Esse dunque sovrapponendosi producevano all'occhio dell'osservatore una indesiderata iridescenza al bordo dell'immagine osservata.

Se da un lato questa scoperta servì da stimolo al miglioramento della tecnica di osservazione, dall'altro col tempo suggerì la possibilità che l'analisi delle componenti della luce potesse fornire una descrizione fisica della stessa nonché della sorgente che l'emetteva.

Quando poi la Fisica fu in grado di provare che due fasci luminosi sovrapposti su di uno schermo producono una strana serie di frange luminose intervallate da regioni oscure (il fenomeno dell'interferenza) e che osservando un fascio luminoso dietro ad un ostacolo i bordi di quest'ultimo appaiono sfumati (la diffrazione) ci si rese conto che certi comportamenti della luce potevano essere spiegati soltanto ammettendo che la luce fosse costituita da onde e si associò quindi ad ogni colore una ben precisa lunghezza d'onda ed una frequenza corrispondente entrambe correlate alla velocità della luce (già misurata dall'astronomo danese Roemer alla fine del 1700 attraverso un rudimentale ma abbastanza efficace metodo astronomico che illustreremo più avanti) dalla relazione c= (dove i tre termini scritti nell'ordine indicano appunto velocità della luce, lunghezza d'onda e frequenza). La sequenza dei colori dell'iride, o “spettro luminoso”, considerata nella sua successione dal rosso al violetto, contiene la luce visibile al nostro occhio in ordine crescente di frequenza (da 4 a 8 decimillesimi di millimetro).

Nel 1814 quando Fraunhofer notò che la luce del sole, scomposta con un prisma di vetro rivelava una serie di righe con i colori dell'iride interrotta da una riga oscura corrispondente al colore (e alla lunghezza d'onda) della luce emessa da vapori incandescenti di Sodio, si comprese che la luce, una volta scomposta, poteva fornire agli astronomi informazioni sia sulla composizione chimica che sulle condizioni fisiche della materia delle stelle.

Nel XIX secolo il progresso della Fisica e delle sue applicazioni subirono un'impennata: dopo che James Clerck Maxwell nel 1859 ebbe perfezionato la sintesi della descrizione e dell'interpretazione dei fenomeni elettrici e magnetici nel sistema di equazioni differenziali che portano il suo nome, si cominciò ad inquadrare la luce in un più ampio campo di fenomeni, le onde elettromagnetiche, generate dalla mutua trasformazione di campi elettrici oscillanti in campi magnetici oscillanti e viceversa. Nel 1860 poi il fisico tedesco Gustav Kirchhoff trasse dalle sue osservazioni tre principi che consentirono la prima interpretazione dello spettro della luce:

  • un gas incandescente emette luce il cui spettro è costituito da righe colorate staccate su di un fondo scuro;
  • una sorgente solida, liquida o costituita da gas a elevata pressione emette uno spettro costituito dalla sequenza continua e completa dei colori dell'iride, il cosiddetto “spettro continuo”;
  • se tra l'osservatore e una sorgente di spettro continuo è frapposto un gas più freddo, lo spettro luminoso mostra, sovrapposte al continuo, alcune righe scure (le righe di assorbimento): tale spettro è detto “spettro di assorbimento”.
  • Qualche anno dopo l'astronomo italiano padre Angelo Secchi, catalogò e classificò gli spettri di circa 400 stelle, suddividendole in quattro categorie.

    Tale classificazione fu corretta e ampliata in seguito al lavoro presso l'osservatorio di Harvard (ancora oggi si utilizza tale suddivisione che raggruppa le stelle più comuni in 7 categorie in base al colore o alla temperatura superficiale).

    Nel 1868 inoltre William Huggins dall'osservazione dello spettro della stella Sirio dedusse che le righe degli elementi presenti in essa apparivano spostate rispetto ai valori caratteristici noti. Egli attribuì il fenomeno allo spostamento della sorgente: l'effetto Doppler è infatti la modificazione della lunghezza d'onda di un fenomeno ondulatorio, dovuta allo spostamento della sorgente relativa all'osservatore. Secondo la meccanica ondulatoria si può dimostrare che un avvicinamento della sorgente all'osservatore produce una diminuzione della lunghezza d'onda (nel caso della luce uno spostamento verso il blu), mentre un allontanamento produce l'effetto contrario (nel caso della luce uno spostamento verso il rosso della serie di righe dell'elemento emittente). Huggins ricavò per Sirio una velocità di allontanamento pari a 48 km/s da noi.

     

    Fotografia e telecamera

    Se l'introduzione di specchi al posto delle lenti come obiettivi permise di costruire telescopi sempre più grandi, è pur vero che telescopi troppo grandi hanno l'inconveniente di ricevere troppa luce in modo da rendere il fondo troppo luminoso, impedendo così di distinguere gli oggetti più deboli. Il problema viene risolto dall'introduzione in Astronomia della fotografia: i “fotoni”, pacchetti elementari di energia teorizzati dalla fisica quantistica impressionano una lastra fotografica, che, con una opportuna esposizione, può ricevere più luce dell'occhio umano.

    Immediatamente prima della seconda guerra mondiale l'astronomo francese Andrè Lallemand elaborò la prima camera elettronica: un sistema nel quale i fotoni incidono una lastra sensibile producendo elettroni, i quali poi vengono focalizzati.

    È il primo passo verso la costruzione del fotomoltiplicatore, sistema fotoelettrico nel quale un fotone produce una cascata controllata di elettroni e che consente così il conteggio dei fotoni e con esso l'analisi quantitativa della luce di un oggetto.

    Attualmente per rispondere sia all'esigenza di creare immagini che a quella di misurare il flusso luminoso proveniente da una sorgente, si utilizza il CCD (“Coupled Charged Device” o dispositivo ad accoppiamento di carica), che al fotomoltiplicatore accoppia una telecamera.

     

    La luce delle stelle e delle nebulose

    Quando l'occhio percepisce la debole luce delle stelle riesce soltanto con estrema difficoltà a notare una lieve differenza cromatica tra alcune di esse. Stelle luminose come Betelgeuse in Orione e Arturo (Bootis) appaiono splendenti di una luce dai riflessi arancio, Antares nello Scorpione ci appare brillare di un bagliore rosso, Rigel altra luminosissima stella nella costellazione di Orione ci appare splendente di luce vagamente azzurrognola, mentre le brillantissime Sirio, Vega, Deneb e Altair brillano di luce bianca.

    La visione delle stelle al telescopio accentua tali differenze cromatiche permettendoci di verificare come la luce delle stelle. Quando si scompone la luce stellare poi, gli spettri stellari ci si mostrano continui con un eccesso di emissione nel colore predominante che determina le caratteristiche cromatiche della stella.

    Fu questa scoperta che suggerì già alla fine del XIX secolo l'idea che le stelle fossero sistemi autogravitanti costituiti da gas ionizzato dall'elevata temperatura e che tale temperatura (o almeno quella delle atmosfere stellari, cioè delle regioni delle stelle da cui proviene la luce che ci giunge) potesse essere determinata dall'andamento del diagramma del flusso luminoso al variare della lunghezza d'onda.

    La luce dunque doveva recare l'informazione della temperatura della sorgente che la emetteva come un termometro che a contatto con una grande sorgente di calore si porta alla sua stessa temperatura e permette di leggerne la misura sulla scala graduata. Perché ciò sia possibile occorre però che la luce sia in equilibrio termico con la materia delle stelle; tale rapporto tra materia e radiazione è indicata col nome di “corpo nero”, termine con il quale si indica un corpo che assorbe tutta la radiazione che riceve (poiché l'energia irraggiata in ogni regione dello spettro da un corpo di questo tipo dipende soltanto dalla sua temperatura, si può assumere tale temperatura come caratteristica ella radiazione).

    Le previsioni teoriche formulate da Max Planck agli inizi del secolo sullo spettro di corpo nero si adattarono sorprendentemente agli spettri stellari; poiché dunque uno spettro di corpo nero dovrebbe risultare continuo con emissione massima a una particolare lunghezza d'onda (o colore) dipendente dalla temperatura, gli spettri continui delle stelle sono in grado di rivelare la temperatura della materia delle atmosfere stellari.

    Come abbiamo già accennato, sulla base di tale interpretazione dello spettro continuo le stelle si possono suddividere in 7 categorie principali ciascuna delle quali è individuata da un intervallo di temperature superficiali (corrispon-denti ad un dato colore): a ogni singola categoria si assegna una lettera dell'alfabeto (O, B, A, F, G, K, M).

    Si va dalle stelle blu o azzurre con temperature più elevate (da 20.000° a 10.000° per le stelle di tipo O, B e A), alle stelle rosse (con T = 3.000°) di tipo M. È stato grazie a questi risultati che si è poi potuto costruire un modello evolutivo delle stelle, secondo il quale le stelle più calde sono anche le più giovani e massicce, destinate a evolversi in minor tempo, mentre le cosiddette “giganti e supergiganti rosse” sono stelle che si avviano alla fine della loro vita.

    Inoltre tutti gli spettri delle stelle mostrano, sovrapposte al continuo, le righe scure caratteristiche degli spettri di assorbimento.

    I meccanismi di interazione tra radiazione e materia che spiegano gli spettri divennero più chiari quando la scienza entrò all'interno dell'atomo e ne dettò i principi generali di funzionamento agli inizi di questo secolo. Il modello atomico compatibile con la meccanica quantistica colloca gli elettroni intorno al nucleo a distanze fisse discrete dipendenti dalle caratteristiche del nucleo atomico; gli elettroni più interni dell'atomo sono quelli che occupano gli stati di minor energia all'interno dell'atomo stesso.

    In tal modo, quando la luce di una stella attraversa gli strati più esterni di essa od uno strato gassoso di materia interstellare, l'assorbimento di un opportuno quantitativo (o “quanto”) di radiazione elettromagnetica viene accompagnato dal salto di un elettrone da un livello più interno ad uno più esterno; poiché la frequenza della radiazione elettromagnetica è legata all'energia di un singolo “quanto” di radiazione dalla relazione E=h, l'assorbimento di un quanto o “fotone” provocherà l'oscuramento nello spettro continuo della stella, di una riga della frequenza corrispondente (poiché la sua energia, spesa come già detto per provocare il salto verso l'esterno dell'elettrone, viene sottratta al campo di radiazione).

    Allo stesso modo le righe di emissione di un gas caldo sono prodotte dalla perdita di energia di un elettrone che viene catturato da un atomo del gas (righe di “ricombinazione”), oppure di un elettrone che, trovandosi all'interno dell'atomo stesso, compie un salto da un livello quantico più esterno (quindi più energetico) ad uno più interno.

    È ciò che determina l'emissione delle nebulose gassose (come la grande nebulosa di Orione, le nebulose “Trifida” e “Laguna” nel Sagittario, la “Nord America” nel Cigno o la spettacolare “Rosetta” nell'Unicorno).

    La luce delle nebulose gassose è emessa dagli atomi dei gas che le compongono quando questi sono stati riscaldati (e quindi sono aumentati gli urti tra di essi) da una sorgente “eccitante”, che risulta essere per lo più una stella o un sistema di stelle giovani e calde.

    L'analisi spettroscopica della luce proveniente anche delle altre galassie ci ha permesso dunque sia di scoprire che gli elementi presenti nel nostro sistema stellare sono gli stessi che si trovano nell'intero universo, sia di tre preziose indicazioni sulle condizioni fisiche e dinamiche delle galassie stesse.

    Le “nubi oscure” e la polvere

    Quando si è cominciato nel modo suddetto a decifrare i messaggi del cielo, si è avvertita la necessità di spiegare perché certe zone di esso fossero sorprendentemente oscure: in particolare la Via Lattea appare assottigliarsi fino ad interrompersi tra la costellazione dell'Aquila e quella del Sagittario.

    Fu padre Piazzi (a circa metà del XIX secolo) che per primo attribuì l'assenza di stelle in quella zona del cielo ad un effetto ottico prodotto dalla diffusione della luce delle stelle che si trovavano in quella direzione da parte di nubi oscure. Fu dunque scoperto un nuovo tipo di oggetti nebulari: le nubi di polvere (in genere polvere di grafite e silicati). Esse, diffondendo la luce possono risultare visibili per un fenomeno paragonabile a ciò che accade quando un raggio di luce filtra attraverso le persiane di una stanza buia e permette di vedere le particelle di pulviscolo sospese nell'aria. Se invece sono sufficientemente spesse, oscurano la luce delle stelle retrostanti.

    La velocità della luce e l'immagine dell'universo

    Al tempo di Newton (dopo i primi goffi tentativi effettuati da Galileo di misurare una ipotetica velocità della luce finita) si riteneva ancora che la luce si propagasse istantaneamente, e che quindi il cielo ci fornisse un'immagine dell'universo visibile relativa all'istante stesso in cui lo si osservava. Ma alla fine del XVII secolo l'astronomo danese Roemer, studiando il moto dei satelliti di Giove ed in particolare misurando il tempo intercorrente tra due successive occultazioni della luna Io, la più interna tra le lune di Giove, notò che a distanza di sei mesi essa scompariva dietro il pianeta con un ritardo massimo di circa 20 minuti rispetto ai tempi previsti. L'unica spiegazione di tale ritardo fu trovata nella diversa lunghezza del percorso che la luce proveniente dal sistema gioviano doveva compiere per giungere a noi durante la contemporanea rotazione della Terra e di Giove intorno al Sole; nell'arco di circa sei mesi la Terra, ruotando assai più velocemente di Giove intorno al Sole, passa dalla minima distanza alla massima distanza da Giove. Il ritardo massimo per Roemer rappresentava il tempo impiegato dalla luce a percorrere il diametro dell'orbita terrestre (differenza tra la massima distanza e la minima distanza tra la Terra e Giove); dividendo il diametro dell'orbita della Terra per l'intervallo di tempo misurato, potè calcolare una prima stima della velocità della luce (circa 220.000 km/s). Nei secoli successivi attraverso tecniche di misurazione più precise si è giunti ad attribuire alla luce una velocità di 299.792,458 km/s.

    Se è vero dunque che la luce ha una velocità finita è altrettanto vero che i segnali luminosi provenienti da corpi celesti posti a diversa distanza dalla Terra impiegano tempi diversi per arrivare a noi (la distanza di una stella si misura in anni luce; un anno luce è appunto la lunghezza del percorso descritto dalla luce in un anno): pertanto oggi sappiamo che il cielo quale oggi ci appare, ci mostra gli astri nelle condizioni in cui si trovavano al momento in cui partirono i segnali luminosi che ci giungono. Gli oggetti più lontani ci appaiono quali erano in tempi più antichi; per questo le galassie più remote ci possono recare notizie di momenti significativi della storia passata dell'universo.

     

    Conclusioni

    Oggi la luce non è più la sola “messaggera del cielo”; la necessità di ampliare gli orizzonti osservativi oltre i limiti della luce visibile, di scandagliare l'universo con antenne-radio o sensori a raggi infrarossi e X, nasce anche dal rapido sviluppo della Fisica in questo secolo. Scoperte ottenute con i radiotelescopi, quali la radiazione cosmica di fondo, o le “pulsar”, le radiosorgenti stellari pulsanti, hanno trovato nel mondo della Fisica un terreno ricco di idee per soluzioni interpretative e sono divenute in poco tempo eventi fondamentali nel sempre più articolato quadro delle conoscenze astrofisiche. Oggi la radiazione elettromagnetica che ci arriva dallo spazio viene registrata su nastri magnetici, viene digitalizzata in file mediante elaborate tecniche informatiche, viene sottoposta a complesse elaborazioni al calcolatore e diviene un insieme di dati da confrontare con ponderosi modelli matematici.

    E tuttavia, nonostante tutto ciò, le sempre più rare volte in cui volgiamo gli occhi al cielo forse colpiti dalla straordinaria brillantezza del cielo invernale o dal vivo bagliore argenteo della luna piena, l'emozione antica di fronte a quell'oscurità infinita punteggiata di piccole ma vivissime luci tremolanti ci riporta ancora all'inizio della nostra storia, in cui l'umanità bambina vedeva in quella volta stellata il luogo dal quale gli dei vegliavano sul suo sonno tormentato dalle insidie della notte.

     

    Monografia n.14-1997/8


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