LENTI GRAVITAZIONALI: MIRAGGI DELLA GRAVITÀ
di Marco Marchetti


Diagram demonstrating the principle of a gravitational lens
Photo: PRC98-14b (30 March 1998)

 

INTRODUZIONE

Lente Gravitazionale è una frase molto pittoresca per descrivere un fenomeno astronomico previsto da Albert Einstein, come conseguenza della sua teoria della relatività generale, che però fu giudicato troppo raro per avere una benché minima probabilità di essere osservato.

Come vedremo Einstein aveva ragione e torto allo stesso tempo; aveva torto perché il fenomeno è stato osservato a più riprese (di lenti gravitazionali se ne conoscono diverse) ma aveva anche ragione poiché le condizioni di osservazione e soprattutto gli oggetti astronomici implicati sono totalmente diversi da quelli inizialmente ipotizzati.

 

LA LEGGE DI GRAVITAZIONE UNIVERSALE

La nostra storia incomincia la sera del 23 settembre 1846 all’osservatorio astronomico di Berlino. Quel giorno l’astronomo tedesco Johann Gottfried Galle aveva ricevuto una singolare richiesta dal suo amico matematico francese Urbain Jean Joseph Le Verrier il quale gli chiedeva di osservare una certa zona di cielo e controllare se notava qualcosa di strano. La sera stessa Galle puntò il telescopio sulla zona indicata dall’amico ed effettivamente qualcosa di strano c’era: una stella che non compariva in nessuna carta stellare. Il nuovo astro però, sera dopo sera, mostrava un lento movimento di chiara origine planetaria: era stato scoperto l’ottavo pianeta del sistema solare e fu chiamato Nettuno. La scoperta era davvero eccezionale perché era la prima volta che un nuovo astro (in questo caso un pianeta) veniva scoperto non per caso ma grazie ad una previsione basata su precisi calcoli matematici.

I pianeti conosciuti fin dall’antichità erano cinque (oltre alla Terra): Mercurio, Venere, Marte, Giove e Saturno; per più di 2000 anni l’orbita di Saturno rappresentò il confine estremo del sistema solare. Poi, nel 1781, William Herschel (il più grande osservatore visuale) scoprì casualmente il settimo pianeta: osservando la stessa zona di cielo in due periodi diversi notò che una stella aveva cambiato posizione. In un primo momento pensò di avere a che fare con una cometa; in seguito, con l’aumentare dei dati a disposizione, si rese conto di avere scoperto un nuovo pianeta che venne chiamato Urano.

Con il passare degli anni ci si accorse che Urano non seguiva l’orbita prevista ma andava un po’ per i fatti suoi. Questa discrepanza fra orbita calcolata e orbita effettivamente percorsa fu correttamente interpretata come il disturbo di uno sconosciuto pianeta che si doveva trovare ancora più lontano.

Indipendentemente l’uno dall’altro il matematico inglese John Couch Adams e Le Verrier calcolarono, in base alle perturbazioni del moto di Urano, la massa e l’orbita del nuovo pianeta. Adams finì i calcoli leggermente prima di Le Verrier arrivando agli stessi risultati ma il suo lavoro, prontamente inviato all’astronomo reale dell’osservatorio di Greenwich, fu incredibilmente ignorato. I risultati di Le Verrier, invece, finirono nelle mani di Galle che, come abbiamo visto, al primo tentativo scoprì il nuovo pianeta.

I calcoli di cui abbiamo parlato erano possibili grazie alla Teoria della Gravitazione Universale elaborata da Isaac Newton 150 anni prima. Newton intuì che il moto degli oggetti sulla Terra, il moto della Luna attorno alla Terra e il moto dei pianeti attorno al Sole erano governati da una unica forza che attira i corpi con una intensità proporzionale al prodotto delle loro masse e inversamente proporzionale al quadrato delle loro distanza. A partire da questo principio fondamentale Newton elaborò una formidabile teoria (che fu chiamata appunto Teoria della Gravitazione Universale) in base alla quale era possibile studiare con estrema precisione il movimento dei pianeti, delle comete e, in generale, il moto di un qualsiasi oggetto soggetto alla forza di gravità.

La scoperta di Nettuno fu il primo grande trionfo della teoria cui ne seguirono presto moltissimi altri; infatti tutto il 1800 fu un continuo susseguirsi di trionfi e successi. Si scoprì che si potevano prevedere con largo anticipo (nel futuro ma anche nel remoto passato) le posizioni di pianeti, luna, comete, gli istanti precisi delle eclissi, e cosi via. La meccanica Celeste, la disciplina derivata dalla Gravitazione Universale che studia i movimenti dei corpi celesti, raggiunse delle precisioni mai viste prima. L’unico ostacolo sembrava essere la gran mole di calcoli necessari per il conseguimento dei risultati; oggi questo compito viene svolto in maniera egregia dai computer ma a quei tempi i conti erano fatti a mano. Con il passare del tempo la Teoria della Gravitazione Universale era diventata non più una teoria ma LA teoria alla quale tutte le altre dovevano assomigliare.

Questa ventata di ottimismo era presente anche in altre branche della fisica. Infatti Lagrange aveva pubblicato un sistema di equazioni (lagrangiana) che permetteva di prevedere il comportamento presente, passato e futuro di un qualsiasi sistema meccanico purché se ne conoscessero ad un certo istante le cosiddette condizioni iniziali (cioè posizione e velocità di tutte le componenti del sistema) mentre James Clerck Maxwell aveva pubblicato un sistema di equazioni che conglobava in una unica teoria tutti i fenomeni elettrici e magnetici. Siamo a fine secolo ed era opinione diffusa che la fisica fosse una disciplina ‘finita’ cioè che era stato scoperto tutto quello che c’era da scoprire; addirittura gli studenti venivano fortemente disincentivati dal seguire i corsi di fisica poiché la si riteneva una branca della scienza che non aveva più niente di nuovo da offrire.

Eppure i segni premonitori che le cose non stavano esattamente così e che nel campo della fisica stava per succedere qualcosa di grosso c’erano tutti; per segni premonitori intendiamo fenomeni che le teorie correnti non riuscivano assolutamente a spiegare. Ci riferiamo, a titolo di esempio, alla famosa ‘catastrofe ultravioletta’, un fenomeno che la teoria dell’irraggiamento prevedeva ma che non si riusciva ad osservare, oppure all’‘effetto fotoelettrico’, un fenomeno che invece si osservava benissimo ma che non si riusciva a spiegare.

L’astronomia, e in particolare la meccanica celeste, non faceva eccezione; l’ondata di successi e trionfi che aveva accompagnato questa disciplina per tutto il 1800 si era infranta contro un piccolo scoglio, piccolo dal punto di vista quantitativo ma grande come una montagna dal punto di vista qualitativo: nel sistema solare, quindi a due passi da casa nostra, c’era un fenomeno che la teoria non riusciva a spiegare in nessuna maniera e che quindi rovinava la festa agli astronomi. Il guastafeste in questione era Mercurio.

Mercurio è il pianeta più vicino al Sole: è un pianeta molto piccolo di tipo roccioso, dista mediamente dal Sole 58 milioni di chilometri e percorre la sua orbita in circa 88 giorni; il punto dell’orbita più vicino al Sole si chiama perielio. Il perielio di Mercurio non è fisso nello spazio ma, lentamente, si muove in direzione del moto del pianeta; per questo motivo si dice che il perielio di mercurio ‘precede’ oppure che è soggetto ad un moto di precessione. LA precessione del perielio di Mercurio è un fenomeno previsto e spiegato dalla teoria di Newton però il perielio di Mercurio avanza di 43 secondi d’arco per secolo in più di quanto previsto dalla teoria. La discrepanza è molto piccola (43 secondi è l’angolo sotteso dal piede di un bambino alla distanza di un chilometro) ma per una scienza che vantava precisioni folli come la Meccanica Celeste anche una discrepanza così piccola era una grande sconfitta.

 

LA TEORIA DELLA RELATIVITÀ

Il 1905 fu un anno memorabile per la fisica e, in generale, per tutta la scienza. Uno sconosciuto diplomato al politecnico di Zurigo, che lavorava all’Ufficio Brevetti di Berna e che quindi era rimasto isolato dalla comunità scientifica internazionale, fece pubblicare sulla prestigiosa rivista di fisica ‘Annalen der Physics’ tre articoli che, di lì a presto, sarebbero diventati immortali. In questi tre articoli il giovanotto in questione, che si chiamava Albert Einstein, partendo da un conflitto fra la teoria di Newton sulla gravità e quella di Maxwell sull’elettromagnetismo rivoluzionava completamente i concetti di spazio, tempo, energia e massa. In particolare spazio e tempo (che Newton considerava assoluti) venivano presentati come concetti relativi; questo significa che osservatori che viaggiano a velocità diverse fra loro non concorderanno su misure di spazio (come la lunghezza di una barra) oppure di tempo (come l’intervallo di tempo fra due eventi). Era nata la Teoria della Relatività.

Questa prima versione fu chiamata Teoria della Relatività ristretta o Speciale poiché aveva una forte limitazione: essa non funziona in presenza di campi gravitazionali. Il passo successivo di Einstein fu quello di estendere la teoria per comprendere la gravità e il risultato comparve nel 1916 sotto il Nome di Teoria della Relatività Generale. In questa teoria la gravità viene vista sotto una luce completamente nuova: non è più una forza misteriosa (l’origine della quale aveva preoccupato non poco anche Newton) che attira i corpi secondo la nota legge bensì la manifestazione della curvatura dello spazio. In altre parole la massa dei corpi incurva lo spazio circostante cosicché i corpi che si trovano nelle vicinanze sono costretti a seguire una traiettoria curva non per l’esistenza di una forza ma poiché non possono fare altrimenti.

Una conseguenza molto importante di questo nuovo modo di vedere la gravità è che anche la traiettoria dei raggi di luce che si trovano a passare in prossimità di un forte campo di gravità sarà incurvata. L’incurvamento dei raggi di luce fu osservato sperimentalmente per la prima volta nel 1919: durante la fase di totalità di un eclisse di Sole le posizioni delle stelle in prossimità del bordo del disco solare risultarono diverse dalle posizioni che le stesse stelle occupavano quando il Sole era lontano. Per la Teoria della Relatività generale questo fu il primo grande trionfo.

Nel 1929 Edwin P. Hubble, un astronomo che presto sarebbe diventato molto famoso, completando uno studio di alcune decine di galassie fra le più vicine si accorse di un fatto molto curioso: gli spettri di tutte le galassie mostravano righe spostate verso la parte rossa dello spettro; questo è il famoso effetto Doppler e lo spostamento delle righe verso il rosso implica una velocità di allontanamento. In altre parole tutte le galassie sembravano allontanarsi precipitosamente dalla nostra: più la galassia era lontana e maggiore era la velocità di allontanamento.

Ben lungi dall’essere un fuggi fuggi generale, questo fenomeno venne correttamente interpretato come la prova dell’espansione dell’universo. Questa scoperta fu un’altra brillante conferma per la teoria di Einstein; infatti tutti gli universi previsti dalla teoria sono universi in espansione.

 

LENTI GRAVITAZIONALI

Nel 1937 lo stesso Einstein, studiando le conseguenze dell’incurvamento dei raggi di luce provocato dalla gravità, arrivò ad ipotizzare che se la luce di una stella lontana, durante il suo viaggio di avvicinamento alla Terra, si fosse trovata a passare nelle vicinanze di una stella massiccia molto più vicina essa avrebbe potuto subire una deviazione causata dalla curvatura dello spazio provocata dalla stella vicina (analogamente a quello che succede alla luce delle stelle che si trovano in prossimità del bordo del disco solare).

In condizioni molto particolari di allineamento la luce della stella lontana avrebbe potuto subire una scissione in più parti dando quindi origine a immagini multiple (doppie, triple e addirittura quadruple); il fenomeno è quindi una specie di miraggio cosmico dovuto alla gravità e fu chiamato Lente Gravitazionale (la lente è ovviamente la stella intermedia). Fu però lo stesso Einstein a smorzare subito gli entusiasmi poiché si affrettò a concludere che un fenomeno del genere sarebbe stato troppo raro per potere essere osservato.

Agli inizi degli anni ‘60 Maarten Schmidt, un astronomo che lavorava all’osservatorio di Cambridge, scoprì una serie di sorgenti radio molto intense; di lì a poco di alcune di esse se ne scoprì la controparte ottica che appariva di aspetto stellare. Questi oggetti, molto particolari come vedremo, furono chiamati quasar, contrazione della frase inglese ‘quasi stellar radio source’ (sorgenti radio di aspetto pseudo stellare).

Il termine pseudo stellare è quanto mai appropriato; infatti questi oggetti possono essere di tutto fuorché stelle. La prima sorpresa venne dagli spettri: le righe in essi contenute erano del tutto sconosciute; poi qualcuno si accorse che le righe potevano coincidere con quelle note purché si ammettesse che erano enormemente spostate verso la parte rossa dello spettro. Lo spostamento era talmente forte che in un primo momento aveva reso irriconoscibili le righe stesse; abbiamo visto che un forte spostamento verso il rosso implica una forte velocità di allontanamento e quindi una grandissima distanza. I quasar sono, infatti, fra gli oggetti più lontani, e quindi più vecchi, dell’universo: si parla non più di milioni di anni luce ma di miliardi di anni luce; di conseguenza, per visibili a così grandi distanze, devono essere anche molto luminosi, più luminosi di intere galassie.

I rompicapi per gli astronomi aumentarono quando si scoprì che alcuni quasar erano soggetti a variazioni rapidissime di luminosità (brillamenti) poiché una rapida variazione di luminosità implica che il volume del quasar deve essere molto piccolo; di conseguenza la sorgente di energia deve essere fra le più potenti ed efficienti che si conoscano. L’ipotesi più accreditata è quella di buchi neri supermassicci che fagocitano quantità galattiche di materia.

Il 29 marzo 1980 si scoprì qualcosa di strano in una coppia di quasar già fotografati molti anni prima all’osservatorio di Monte Palomar: i due quasar oltre ad essere molto vicini (sono separati da soli 6 secondi d’arco) erano praticamente identici in tutto e per tutto; infatti essi mostravano la stessa luminosità e gli stessi spettri con identiche righe di emissione e di assorbimento caratterizzate dallo stesso spostamento verso il rosso (che indicava una velocità di allontanamento pari al 70% di quella della luce).

In un primo momento si pensò ad un quasar doppio; visto che esistono molti oggetti doppi (stelle, pulsar, ...) era abbastanza ragionevole pensare di trovarsi di fronte al primo quasar doppio. Però il fatto che i quasar fossero perfettamente identici implicava che anche la loro vita passata, cioè la loro storia evolutiva, doveva essere identica e ciò era abbastanza improbabile. Ma il problema più grosso era un altro: le righe di assorbimento degli spettri indicavano che la luce dei quasar aveva attraversato una nube di gas e polveri non troppo lontana dai quasar stessi; il fatto che le righe di assorbimento fossero anch’esse perfettamente identiche implicava che la nube doveva avere delle caratteristiche (composizione, forma, velocità, ...) del tutto insolite.

Qualcuno allora avanzò l’ipotesi che forse ci si trovava di fronte al primo caso di lente gravitazionale: in realtà il quasar era uno solo e la sua immagine era sdoppiata dalla curvatura dello spazio indotta da un oggetto, la lente, che si trovava lungo la congiungente quasar-Terra; la candidata più autorevole al ruolo di lente poteva essere una grossa galassia ellittica debolmente luminosa. Purtroppo, mentre si faceva strada l’ipotesi della lente gravitazionale, la coppia di quasar si era avvicinata troppo al Sole e le osservazioni dovettero essere sospese in attesa della loro ricomparsa nel cielo notturno.

La sosta, però, riguardava solamente gli astronomi tradizionali poiché i radioastronomi poterono continuare indisturbati il loro lavoro. In una eccezionale immagine radio, presa All’osservatorio VLA di Socorro nel Nuovo Messico), i due quasar furono separati nettamente; purtroppo nello spazio fra le due immagini non v’era traccia di alcuna galassia. In corrispondenza del quasar settentrionale erano, invece, presenti due ‘macchie radiò. L’assenza della galassia che doveva fungere da lente non era un grosso problema poiché le galassie ellittiche di norma emettono molto poco nel campo delle onde radio. Ciò che preoccupava maggiormente i radioastronomi era la mancanza delle macchie radio in prossimità del quasar meridionale; infatti una lente avrebbe dovuto sdoppiare anche l’immagine delle macchie. Di conseguenza i radio astronomi abbandonarono l’ipotesi della lente in favore del quasar binario in netto contrasto con i loro colleghi che lavoravano nel campo della luce visibile.

A novembre la coppia di quasar ricomparve nuovamente nel cielo notturno e in una eccezionale immagine presa all’osservatorio sul Mauna Kea (isole Hawaii) in condizioni di visibilità veramente splendide anche nel campo ottico la coppia di quasar venne nettamente separata; l’immagine del quasar meridionale mostrava una leggera protuberanza verso l’alto. Grazie all’intervento del computer l’immagine del quasar settentrionale venne sottratta da quella del quasar meridionale e la debole luminosità che rimase si scoprì essere dovuta ad una debole galassia che si trovava circa a metà strada fra la terra e la coppia di quasar.

Finalmente si era scoperta la lente.

A questo punto un dubbio era legittimo; la teoria prevede che la lente si debba trovare a metà strada fra le due immagini: come mai l’immagine della galassia si trova così vicino al quasar meridionale?

Il motivo è molto semplice: la teoria prevede che la lente si debba trovare a metà strada solo se la lente stessa è di tipo puntiforme (per esempio un buco nero). Una galassia è invece un oggetto di tipo esteso e in questo caso la teoria prevede esattamente la configurazione osservata; anzi prevede qualcosa di più: l’immagine del quasar non è doppia ma tripla solo la posizione di due delle tre immagini è la stessa (il quasar meridionale). Questo modello spiega molto bene anche perché l’immagine delle famose macchie radio (che tanto avevano preoccupato i radioastronomi) non viene sdoppiata dalla lente: esse infatti si trovano troppo lontano dalla congiungente quasar-lente-terra e la loro immagine viene solamente spostata rispetto all posizione originale.

Questa è la storia della scoperta della prima lente gravitazionale. Mentre ancora si studiava questo caso si scoprì il primo quasar triplo; negli anni successivi si scoprirono i primi quasar quadrupli (configurazioni denominate ‘croci di Einstein’) e nel 1986 venne osservata per la prima volta la configurazione denominata ‘anello di Einstein’; in quest’ultimo caso la luce proveniente da un quasar lontano oltre ad essere sdoppiata subisce una particolare deflessione che la porta ad assumere una configurazione ad anello.

Con la messa in orbita del telescopio spaziale le scoperte di lenti gravitazionali sono notevolmente aumentate e sta addirittura nascendo una nuova disciplina denominata ‘ottica gravitazionale’ poiché la teoria prevede anche che in condizioni speciali di allineamento le lenti possono comportarsi come veri e propri zoom cosmici permettendo di osservare lontanissimi oggetti altrimenti inosservabili.

Uno sviluppo molto interessante che riguarda questo tipo di ricerche è apparso recentemente su Scientific American; il fenomeno delle lenti gravitazionali potrebbe permetterci di calcolare la distanza del quasar con molta precisione. Il calcolo della distanza di oggetti così lontani come i quasar è molto importante; l’unico metodo che abbiamo a disposizione è quello basato sull’espansione dell’universo; abbiamo infatti visto che tutti gli oggetti mostrano velocità di recessione proporzionali alla loro distanza. Questa è la famosa legge di Hubble; però la costante di proporzionalità (che oltretutto ci fornisce il tasso di espansione dell’universo) non è conosciuta con precisione; in altre parole la legge ha bisogno di ulteriori calibrazioni, calibrazioni che sono possibili conoscendo per altra via le distanze in questione. Ecco quindi che metodi di calcolo di distanze di lontani oggetti astronomici alternativi sono, per gli astronomi, una vera benedizione.

Ma come è possibile il calcolo della distanza di un lontanissimo quasar che subisce il fenomeno della lente gravitazionale. Il metodo in teoria è molto semplice: la teoria matematica ci consente di costruire un modello in scala del fenomeno. In particolare è possibile conoscere la differenza di percorso della luce delle due immagini in percentuale rispetto alla distanza del quasar.

Abbiamo visto, però, che molti quasar mostrano rapidissime variazioni di luminosità; se il quasar in questione subisce anch’esso una rapida variazione di luminosità il brillamento verrà osservato nelle due immagini in tempi diversi poiché i percorsi sono differenti. Il ritardo temporale moltiplicato per la velocità della luce ci fornisce immediatamente la differenza di percorso da cui si risale immediatamente alla distanza del quasar.

Ecco quindi come il fenomeno delle lenti gravitazionali (che sembrava essere solamente una curiosità matematica) si sta rivelando un formidabile strumento per studiare zone più lontane del nostro universo.

 

Monografia n.25-1998/4


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