Universo di sfere:astronomia e cosmologia degli antichi Greci
di Oriano Spazzoli

Cosmographie Blaviane
Il Sistema Solare
da “Cosmographie Blaviane”, Amsterdam 1667

Parlare dell'Astronomia greca è parlare di uno dei fenomeni importanti nella storia del pensiero occidentale. Se gli storici collocano la culla della nostra civiltà in Mesopotamia e in Egitto, non si può negare alla penisola ellenica, allungata verso il cuore del Mediterraneo, la funzione di “porta” tra un Oriente dalle antichissime tradizioni culturali e un Occidente in rapido sviluppo. La sua storia tormentata, fatta di invasioni e guerre ma anche di incontro tra culture diverse, l'ha condotta nell'arco di un millennio a realizzare una forma di organizzazione dello stato in cui i cittadini avevano la possibilità di esprimere le loro opinioni e di rappresentare le loro esigenze indipendentemente dalla loro nascita o dalla loro condizione sociale: nasce nel 500 a.C. la prima forma di democrazia della storia, la “polis”. Con essa si sviluppa, affrancato dalla schiavitù di strutture sociali rigide con una netta frattura tra il re, la classe nobiliare e sacerdotale di origine divina e il popolo schiavo, il “libero pensiero”, e con esso la scienza della ragione, la filosofia.

E il primo problema che essa si pone è quello di studiare la natura e di carpirne il principio fondamentale, come si proposero di fare i filosofi della scuola ionica (Talete, Anassimandro e Anassimene). L'astronomia poi non è più soltanto osservazione del cielo, ma anche interpretazione razionale dei fenomeni celesti e costruzione di un modello cosmologico che contenga e rappresenti le caratteristiche dell'universo Greco: legge o principio costitutivo fondamentale, ordine, stabilità e eterna ciclicità.

La scuola ionica (di Mileto, ricca città della Ionia in Asia minore) trova il principio fondamentale della natura in un elemento materiale (l'acqua per Talete, l'aria per Anassimene), o in un entità astratta (l'apèiron, l'indefinito o l'illimitato per Anassimandro), ma dalle rare testimonianze scritte sulle loro ipotesi sulla struttura del cielo che ci sono giunte, si deduce che la loro visione dell'universo era ancora piuttosto grossolana, e in qualche caso ancora legata alla tradizione mitologica (come per Talete il cui universo ricorda la descrizione dello scudo di Achille nell'Iliade).

Il solo Anassimandro si occupa di fissare le dimensioni della Terra e degli astri: «le stelle sono porzioni d'aria compresse, a forma di ruote (che girano) riempite di fuoco, ed emettono fiamme in qualche punto da piccole aperture... Il Sole è un disco 28 volte più grande della Terra; è come la ruota d'un cocchio, il cui cerchio sia cavo e pieno di fuoco, e fa sprigionare il fuoco da un certo punto di questo attraverso un'apertura simile ad un soffietto... Le eclissi di Sole avvengono allorquando si chiude l'orifizio per cui il fuoco si sfoga... La luna è un disco 19 volte più grande della terra; è come la ruota di un cocchio, il cui cerchio sia vuoto e pieno di fuoco, similmente al disco del Sole, ed è piazzato obliquamente come anche quello del Sole; ha un'apertura simile al becco di un soffietto; le sue eclissi dipendono dalle rotazioni della ruota.»

Inoltre lo stesso Anassimandro stabilisce che la terra ha la forma di «un cilindro la cui altezza è un terzo della sua larghezza» ed è sospesa per effetto dell'equilibrio di «forze contrapposte».

Allo stesso problema del principio costitutivo del mondo Anassagora di Clazomene e Democrito di Abdera trovano una soluzione diversa ricorrendo ad una pluralità di principi (per Anassagora le “radici” o “omeomerie”, che conservavano le qualità percettive degli oggetti, per Democrito gli atomi qualitativamente uguali le cui uniche proprietà dovevano essere descrivibili matematicamente); l'importanza di Anassagora nel quadro del progresso delle scienze astronomiche è legato al fatto che per primo Anassagora afferma che i corpi celesti hanno una natura materiale come la Terra; in particolare per Anassagora il Sole è una sfera infuocata grande come il Peloponneso e appare piccola perché è molto lontana (fini ad allora si era ritenuto il contrario). Democrito dal canto suo, affermando l'esistenza del vuoto tra gli atomi ammette l'esistenza di uno spazio vuoto, quindi privo di qualsiasi centro.

 

La scuola Pitagorica.

La scuola Pitagorica, fondata da Pitagora di Samo nel V secolo a.C., attribuisce alla matematica un ruolo fondamentale nel quadro generale della conoscenza; mathema indica tutto ciò che è conoscibile e per i Pitagorici è conoscibile solo ciò che è rappresentabile in termini matematici. Per Pitagora il numero diviene centrale rispetto a ciò che rappresenta; il discorso matematico non è rappresentazione della realtà ma realtà esso stesso. Il numero diviene principio fondamentale della natura. Il Pitagorismo spiana la strada allo sviluppo di due discipline del sapere: la prima è la musica.

L'osservazione della correlazione tra l'acutezza del suono del colpo del martello sull'incudine la velocità del colpo stesso e della correlazione tra l'intonazione del suono di una corda vibrante e la lunghezza di questa, legano la musica ad un'espressione quantitativa numerica: l'armonia è numero, quindi elemento che tiene unito il mondo. La seconda disciplina è l'Astronomia. I Pitagorici accettando l'idea derivata dal mito che il cielo avesse natura immateriale o semimateriale e divina, si occuparono di giustificare la periodicità dei moti apparenti degli astri con un modello matematico che li collocava su orbite circolari. La rappresentabilità matematica garantiva l'ordine e la stabilità dell'universo (kosmos). Esso è delimitato dalla sfera delle stelle fisse e tra la volta sferica delle stelle e il centro si trovano i pianeti i cui raggi orbitali e le cui velocità formano una successione numerica identica a quella dei numeri corrispondenti alle note musicali; i pianeti circolando emettono un suono continuo: è la musica del cosmo, espressione della sua armonia.

La più importante intuizione pitagorica è la sfericità della terra; essa poggiava su considerazioni teoriche quali l'analogia con la forma dell'universo e la similitudine tra la terra e lo stesso, ed evidenze osservative quali il mutamento del cielo con la latitudine, il fatto che, quando una nave sparisce sotto l'orizzonte, sparisce prima lo scafo poi l'albero e l'ombra della terra sulla luna durante un eclisse di luna.

Naturalmente il rudimentale modello dell'“universo a due sfere” pitagorico non permette di prevedere correttamente le posizioni e i moti apparenti degli astri, ma secondo i pitagorici, poiché il modello è realtà esso stesso, ciò è dovuto all'imperfezione dei sensi. Per quanto concerne il centro dell'universo esistevano nella scuola due diverse.correnti di pensiero una delle quali faceva capo a Filolao, assertore dell'esistenza di un fuoco centrale con la terra ruotante intorno ad esso in modo da volgergli la stessa faccia (disabitata) e di un antiterra frapposta tra la Terra ed il Sole in modo da completare il numero 10 simbolo della potenza divina; l'altra collocava la terra in posizione centrale.

 

Platone, Eudosso e il problema dei pianeti.

Il nocciolo della dottrina di Platone (429-347 a.C.) è la “teoria delle idee”: la vera realtà è l'“idea”, eterna, universale e definita, mentre le cose materiali corrispondenti ad essa ne sono soltanto imperfette imitazioni e possono essere infinite quindi indefinite (l'idea del bello è unica mentre le cose belle sono infinite).

Nasce la “dialettica”, la scienza delle idee che si occupa del loro collegamento razionale; ma essa non si sviluppa come tecnica formale dei discorsi razionali, bensì come scienza che studia una realtà metafisica. La vera conoscenza per Platone è dunque conoscenza razionale; l'esperienza del mondo sensibile è solo uno strumento per risvegliare alla prima, che è innata data la universalità ed eternità del suo soggetto.

Nello studio della natura Platone mantiene la funzione prioritaria della matematica affermata dal Pitagorismo (in particolare la geometria è necessaria per la conoscenza del mondo naturale); tuttavia mentre per Pitagora gli enti matematici sono la realtà, Platone pone su di un piano di superiorità il mondo delle idee. Per Platone all'ordine delle idee sancito dalla dialettica, deve corrispondere un'ordine della natura, Kosmos eterno e immutabile; la loro connessione è rivelata dal mito del Demiurgo, nel Timeo. Egli volendo plasmare la materia secondo l'ordine del mondo delle idee, la frammenta in atomi dalle forme di poliedri regolari (diversi da quelli di Democrito, che qualitativamente uguali obbedivano a leggi meccaniche) che obbediscono a leggi che rispecchiano l'armonia dei modelli matematici. Risolto il problema del principio, il Demiurgo di occupa di dare unità al cosmo e di fornire regolarità ai suoi movimenti: prima con gli atomi residui forma un composto cui infonde intelligenza, “l'Anima del mondo”che lo tiene unito entro la sfera che lo contiene, quindi inventa il tempo rendendo regolare moto dei corpi celesti.

L'Astronomia platonica si occupa degli stessi problemi di cui si occupano i Pitagorici: il problema del moto regolare degli astri. Le teorie astronomiche di Platone non differiscono in maniera sostanziale da quelle Pitagoriche. Platone avvalla il modello dell'universo a due sfere, che permette facilmente di spiegare i moti diurno e annuale del Sole e quello diurno delle stelle fisse (assegnando alla sfera delle stelle la rotazione diurna e al sole un moto uniforme sulla sfera delle stelle fisse lungo l'eclittica), ma che tuttavia non riesce a formulare mai previsioni valide sulle posizioni dei pianeti, i quali alternavano fasi in cui si spostavano verso Est rispetto alle stelle fisse, a fermate (stazioni) seguite da inversioni del loro moto (retrogradazioni) con variazioni della loro altezza sull'eclittica (del resto la parola pianeti deriva dal greco planetes che significa errante o viaggiatore). Il problema dell'irregolarità del moto dei pianeti richiede una correzione del modello e innescherà un processo di riflessione teorica e di verifica sperimentale che affinandosi col tempo contribuirà allo sviluppo della metodologia osservativa e scientifica in generale.

Ebbene mentre per i Pitagorici il perfezionamento del modello matematico del cosmo non era possibile perché all'osservazione non viene attribuito alcun valore, per Platone la conoscenza del cielo è conoscenza dell'ordine del mondo. L'astronomia diviene dunque la scienza che è in grado di determinarlo. Platone pone per primo il problema di costruire un modello dell'universo in termini matematici rigorosi: «Quali sono i moti uniformi e regolari, la cui assunzione salva completamente i fenomeni relativi ai movimenti degli astri erranti?».

Ciò che Platone chiede è dunque la costruzione di un sistema dinamico complesso i cui elementi sono il cerchio, che rappresenta l'eterna immutabilità della forma del moto, sempre uguale a se stesso, la sfera che rappresenta l'universo chiuso in se stesso e la possibilità di contemplarlo tutto allo stesso modo dal suo centro, e l'uniformità del moto necessaria a sancire la invariabilità del dominio dell'anima divina sul proprio corpo (una diminuzione di tale dominio provocherebbe una variazione della velocità dei moti celesti).

La prima risposta viene fornita da Eudosso di Cnido (408-355 a. C.), città dorica nota per il culto di Venere, il quale teorizza un complesso sistema in cui ad ogni astro viene assegnato un certo numero di sfere concentriche, ciascuna in rotazione con velocità angolare costante su un asse diverso, i cui moti si combinano in modo da riprodurre le peculiarità dei moti degli astri erranti; l'astro è fissato all'equatore della sfera più interna. Al Sole sono assegnate 2 sfere (una per il moto diurno, una rotante nel verso opposto con una velocità angolare uguale a quella del moto annuale intorno ad un asse fisso inclinato di 23° 30' circa rispetto all'asse della prima sfera (che corrisponde alla direzione N-S), alla luna due (una per il moto diurno, una per il moto mensile rispetto alle stelle fisse) e a ciascun pianeta ne sono assegnate 4 di cui le prime due determinano il moto diurno e il moto lungo l'eclittica verso Est, mentre le altre due hanno l'una un asse giacente sul piano dell'eclittica, e l'altra (la quarta) un asse la cui inclinazione dipende dal moto del singolo pianeta; inoltre le ultime due hanno velocità di rotazione esattamente opposte in modo che, se le prime due fossero ferme, il moto della terza e della quarta soltanto produrrebbero una traiettoria a forma di 8 rovesciato i cui occhielli sono bisecati dall'eclittica. Questo moto combinato con quello della seconda sfera, determina un moto apparente complessivo lungo l'eclittica con fasi in cui la velocità apparente è superiore a quella delle stelle fisse e fasi in cui è inferiore a quest'ultima (retrogradazioni).

C'è una differenza fondamentale tra Platone ed Eudosso nell'interpretazione dell'ordine dell'universo che per il primo, come si è detto, è espressione dell'anima del mondo, mentre per Eudosso è proprietà naturale dello stesso. Sarà tuttavia il miglior allievo di Platone, Aristotele, a chiarire l'idea di Eudosso in una teoria generale della natura che trova nell'esperienza i suoi punti fermi.

Con Aristotele il modello cosmologico delle sfere omocentriche, da semplice modello matematico diviene parte di una descrizione “fisica” del mondo. Nel costruire la sua teoria cosmologica egli accetta i principi fondamentali della teoria delle sfere in moto circolare uniforme di Eudosso, che garantiscono i requisiti di stabilità, ciclicità ed eternità all'universo. Tuttavia, mentre per Eudosso i moti degli “astri erranti”, è il risultato della loro tendenza interna, la classificazione aristotelica dei moti in “moti interni o propri” e “moti esterni o acquisiti” gli impone di considerare come moto interno soltanto il moto della sfera più interna associata ad ogni astro, e di considerare come moto acquisito quello prodotto dalla rotazione delle sue sfere più esterne.

Ciò costringe Aristotele a cercare una causa prima e non indagabile del moto degli astri, che egli identifica con il Primo Motore Immobile (immobile perché se si dovesse muovere il suo moto dovrebbe essere spiegato) che provoca la rotazione delle sfere esterne; essa è manifestazione dell'amore e dell'anelito verso Dio ed è causa efficiente in quanto causa finale del moto. Tuttavia la diversità del moto dei pianeti tra di loro impone di introdurre un motore immobile proprio per ognuno di essi. Per evitare, però, di dover spiegare il moto peculiare di ogni singola sfera eudossiana con una sua propria “intelligenza motrice” occorre che la trasmissione del moto tra le varie sfere sia meccanicamente possibile pur restando nulla l'influenza delle sfere l'una sull'altra; per questo egli fu costretto ad aumentare il numero delle sfere per ogni astro (fino a 55). Il suo modello cosmologico verrà presto corretto; maggiore sarà l'impronta lasciata nella storia della scienza dalla sua teoria fisica (come vedremo più avanti).

 

Gli astronomi alessandrini. Il modello degli epicicli e deferenti.

Con il tramonto della polis, cambia il quadro culturale in Grecia: mentre il centro degli studi filosofi resta Atene, il fulcro dell'attività scientifica si sposta ad Alessandria d'Egitto, e questa suddivisione corrisponde una diversificazione di orientamenti e di carattere.

Il mondo della scienza fisica e astronomica post-aristotelica ha ormai raggiunto un grado di complessità e di specializzazione che la porta a divenire dominio di una cerchia sempre più ristretta di saggi. Il metodo scientifico è ormai divenuto quello attuale in cui l'esperienza ha un ruolo fondamentale sia nella formulazione delle teorie che nella loro verifica.

L'introduzione della teoria degli epicicli, dei deferenti (gli astri erranti si muovono in modo da descrivere cerchi, detti “epicicli”, i cui centri ruotano intorno alla terra in orbite circolari, dette “deferenti” in modo che per opportune velocità dei due moti ne possa risultare un moto elicoidale che contempla inversioni periodiche del moto apparente visto dalla Terra) e degli eccentrici (cerchi con centro diverso da quello della Terra) di Apollonio di Perga (matematico noto soprattutto per il suo lavoro sulle coniche) scaturisce da un lavoro di misura e catalogazione delle posizioni degli astri nonché dal confronto dei dati ottenuti con i cataloghi precedenti.

Ad Ipparco di Nicea (194-120 a.C.), astronomo ingegnoso e esperto nella tecnica di osservazione, si devono poi l'introduzione di un sistema di coordinate fisso rispetto alle stelle avente come coordinate l'altezza sull'eclittica e la “longitudine eclittica”, angolo misurato parallelamente all'eclittica a partire dal punto equinoziale di primavera, e la classificazione delle stelle in classi di luminosità (a tal proposito Plinio il Vecchio narra che Ipparco iniziò la sua opera di catalogazione delle stelle perché scosso in seguito alla scoperta di una “supernova” apparsa improvvisamente nella costellazione dello Scorpione nel 134 a.C. e tormentato dal dubbio che le stelle e i corpi celesti potessero nascere, morire o cambiare di luminosità). Il lavoro di Ipparco permise di rilevare come anche i pianeti nel loro moto apparente subiscano delle variazioni di luminosità, ed il modo migliore per spiegare queste ultime era ipotizzare delle variazioni di distanza dalla Terra, che invece i modelli delle sfere omocentriche non prevedevano, nonché lo spostamento apparente delle “stelle fisse” dovuto alla precessione dell'asse terrestre, detto anche “precessione degli equinozi” (in quanto una sua conseguenza è lo spostamento nella volta celeste dei punti equinoziali e dei solstizi); per verificare questo moto peculiare delle stelle utilizzò la stella più luminosa della costellazione della Vergine, Spica.
Inoltre Ipparco verificò come l'anno tropico (tempo intercorrente tra due passaggi successivi ad un punto equinoziale o solstiziale) differisse dall'anno sidereo (tempo impiegato dal Sole a tornare allo stesso punto dello Zodiaco) proprio a causa della “precessione degli equinozi” e si rese conto della convenienza dell'uso del primo ad uso di calendario civile, in quanto permettevano alle stagioni di mantenervi una posizione fissa. Il lavoro di Ipparco fu utilizzato successivamente da Tolomeo per l'elaborazione della sua teoria cosmologica; Ipparco fornì a Tolomeo lo stesso aiuto che un millennio e mezzo dopo Ticho Brahe fornì a Keplero con le sue osservazioni della posizione di Marte.

Ma poco prima di Ipparco e Apollonio, Aristarco di Samo (310-230 circa a.C.) provò a spiegare i moto apparenti del Sole e della Luna ridisponendo Sole Terra e Luna in modo che la Terra ruoti intorno al Sole e contemporaneamente intorno al suo proprio asse e che la Luna compia un moto di rivoluzione intorno alla Terra; notò poi che i pianeti collocati in orbita intorno al Sole a distanze diverse avrebbero potuto produrre moti relativi alla Terra analoghi a quelli osservati. È la prima ipotesi eliocentrica della storia, ma nasce come un semplice esercizio matematico senza affrontare il problema di verificare quantitativamente i dati osservativi (Aristarco si limita a osservazioni qualitative) né trovare le giustificazioni di carattere fisico che la renderebbero accettabile; oltre all'assoluta incompatibilità con i principi fisici di Aristotele, si rilevava che il moto di rivoluzione della terra avrebbe provocato uno spostamento apparente consistente delle stelle fisse che invece non si registrava, e nel caso in cui il cielo delle stelle fisse avesse avuto un raggio molto maggiore del raggio dell'orbita terrestre (ciò avrebbe reso trascurabile lo spostamento apparente suddetto) era inaccettabile un universo vuoto del quale la Terra, il Sole, la Luna, i pianeti occupassero una zona assai piccola.

Al contrario il modello di Apollonio di Perga (che Ipparco accettò pur rilevando che non spiegava perché si notasse come le retrogradazioni non risultavano tutte uguali come previsto dalla teoria) appariva in accordo con le idee aristoteliche sul mondo fisico, anche se lasciava dietro di sé un problema concettuale: se era vero che un cerchio eccentrico si può considerare matematicamente una soluzione equivalente ad un deferente con un epiciclo percorsi nello stesso tempo con un moto in verso opposto, era altrettanto vero che la distinzione aristotelica tra moto interno e moto acquisito imponeva di distinguere i due casi, perché se il moto dell'eccentrico si può reputare un moto interno proprio dell'astro, nell'altro modello ci si pone il problema di quale dei due moti (del pianeta lungo l'epiciclo o del centro dell'epiciclo lungo il deferente) sia quello interno all'astro.

Viene da attribuita ad Ipparco, in particolare, la distinzione tra “grandi epicicli” (descritti con velocità avente lo stesso verso del moto del deferente, che spiegano la retrogradazione del pianeta) e “piccoli epicicli” (percorsi in verso opposto al moto del deferente con velocità minore rispetto ai grandi epicicli; per velocità opposte e tempi di rotazione uguali per epiciclo e deferente, come si è visto, l'orbita risultante è un eccentrico, se il tempo del deferente è il doppio di quello dell'epiciclo il moto risultante è un ellisse). Nel caso del Sole un'orbita eccentrica intorno alla terra (quindi un piccolo epiciclo) spiega la differenza tra il tempo intercorrente tra equinozio primaverile ed equinozio autunnale e quello intercorrente tra equinozio autunnale ed equinozio primaverile (quest'ultimo risulta minore).

Il modello degli epicicli e dei deferenti spiega le retrogradazioni ma non giustifica altre particolarità quali le variazioni di velocità e di altezza sull'eclittica.

 

Il modello tolemaico: l'Almagesto.

Nasce quindi l'esigenza di ritoccare il modello cosmologico e a questo provvide Claudio Tolomeo, astronomo alessandrino del II secolo d.C., apportando ad esempio l'innovazione del punto equante, il punto dal quale il moto apparente di un astro in orbita circolare intorno alla terra, appare avvenire con velocità angolare costante, mentre dal centro geometrico si registra un aumento di velocità dalla parte dell'arco più lontano dall'equante.

Tolomeo oltre a ciò fornì un quadro complessivo del modello geocentrico degli epicicli e deferenti nell'opera intitolata “Massima Sintesi” (Meghìste Syntaxis) di cui fu tramandata la sua traduzione araba con il titolo leggermente modificato (Al meghìste) successivamente ritradotta in latino con il titolo di “Almagesto”: egli è essenzialmente un matematico che si muove all'interno delle ipotesi fisiche aristoteliche, pur rasentandone i limiti (come sull'equante), e se da un lato dichiara apertamente la sua impostazione culturale affermando nella prefazione all'Almagesto che la matematica oppone certezze alle controversie della fisica, dall'altro si attiene rigorosamente alla distinzione tra cielo e mondo sublunare, alla teoria dell'etere e delle sfere assegnando a ciascun moto una sfera materiale o un anello o un tamburello cilindrico ed in particolare uno all'epiciclo di ciascun pianeta all'interno del quale doveva esso muoversi del suo moto “interno”.

Il modello degli epicicli e deferenti nella formulazione tolemaica aveva il pregio inoltre di fissare le dimensioni minime e massime delle sfere celesti concentriche alla Terra assegnate ad ogni astro eguagliandole alle distanze estreme assunte da esso nella sua traiettoria epiciclica.

Tolomeo poi modificò la teoria della causa del moto, sostituendo ai primi mobili di ciascun pianeta una “forza vitale” interna ma che esso è pure in grado di trasmettere in tutto l'universo. Dunque l'astrologia acquista un valore assoluto nel quadro cosmologico tolemaico, e nei secoli successivi di Tolomeo sarà ritenuta importante anche una seconda opera, il “Tetrabyblos”, in cui viene sostenuta la rilevanza del ruolo dell'astrologia nel quadro generale della conoscenza.
Per quanto corretto e perfezionato successivamente nei secoli seguenti (ad esempio con l'aggiunta di epicicli su epicicli) per adattarlo alle nuove anomalie scoperte con le osservazioni sistematiche, prima o poi falliva sempre le previsioni.

 

La Fisica di Aristotele.

Perché allora, nonostante i fallimenti successivi, si impiegherà più di un millennio per superare il modello di Tolomeo e soppiantarlo con la teoria eliocentrica, che avrebbe garantito una maggior “economia concettuale”, cioè spiegato i moti celesti senza ricorrere a una così grande quantità di elementi teorici?

Ciò si deve al fatto che il modello geocentrico di Tolomeo e Aristotele ha alla base una visione del mondo assai vicina a quella primitiva, più diretta derivazione dei nostri sensi. E'un luogo comune attribuire a Galileo Galilei l'introduzione dell'esperienza come base della descrizione della natura affermando che prima di lui solo il sapere scritto era considerato importante: i principi fisici di Aristotele derivavano dall'esperienza e dall'interpretazione dell'osservazione (fu nei secoli seguenti che la sua dottrina scientifica divenne rigoroso dogmatismo; Galileo distingue tra l'opera di Aristotele e quella degli aristotelici). La fisica di Aristotele si articola nei seguenti temi fondamentali:

1) la classificazione del moto, suddiviso (oltre alla già citata suddivisione in moto interno e acquisito) in moto naturale attribuito a ciascun elemento naturale (moto rettilineo per terra, acqua, aria e fuoco elementi del mondo sublunare e moto circolare per l'etere o “quinta essenza” elemento costitutivo dei cieli) e moto violento, indotto cioè da cause esterne, le forze (le forze producono il moto e non la sua variazione come per Galileo e Newton). Il fatto che poi a terra e acqua venga assegnato un moto naturale verso il basso e al fuoco un moto naturale verso l'alto, verso le rispettive sfere concentriche, attribuisce alle direzioni dello spazio “su” e “giù” un significato assoluto, e di conseguenza al luogo verso cui gli elementi si avvicinano o dal quale si allontanano, un ruolo esclusivo nell'universo. Tale ruolo è confermato poi dal fatto che i corpi celesti “eterei” sembrano muoversi intorno alla terra su sfere concentriche ad essa; la Terra deve quindi essere necessariamente al centro dell'universo. A ciò segue che alle già citate argomentazioni pitagoriche a sostegno della sfericità della Terra, Aristotele ne aggiunge un'altra «...E che muovendosi in egual proporzione da ogni punto dell'estrema periferia verso un unico centro, si dovesse necessariamente formare una mole uguale da ogni parte è evidente: infatti se ad un corpo si aggiungono quantità uguali da ogni parte, avranno necessariamente la stessa distanza dal centro. ma la figura che si ottiene è appunto quella di una sfera...».

2) L'Horror vacui, ovvero l'ipotesi dell'impossibilità dell'esistenza del vuoto, attribuisce allo spazio una fisicità materiale; lo spazio esiste in quanto vi si trova la materia; dove finisce la materia finisce anche lo spazio (l'horror vacui ha giustificazioni empiriche quali ad esempio l'esperimento che mostra come praticando un foro in un recipiente pieno d'acqua, l'acqua non scenda se tentiamo di versarla; vi riusciamo invece se pratichiamo due fori da parti opposte del recipiente permettendo all'aria di entrare al posto del liquido versato).
Affermare invece l'esistenza del vuoto significa ammettere l'infinità dello spazio (perché dove finisce la materia c'è il vuoto e al di là di esso si può incontrare dell'altra materia seguita da altro vuoto senza alcun limite). Ammettere poi l'infinità dello spazio significa negare l'esistenza di un suo centro; tutti i punti potrebbero essere infatti suoi centri perché tutti avrebbero la stessa distanza (infinita) dagli estremi. Verrebbe quindi tolta alla Terra la sua funzione esclusiva di centro dell'universo.

3) Molte sono le argomentazioni in favore della superiorità del cielo sul mondo terrestre; anzitutto la tendenza al disordine del mondo sublunare indotto dal moto circolare del cielo della luna che trascina gli elementi terrestri producendone il rimescolamento (ne sono conseguenza le esalazioni dalla sfera del fuoco con cui vengono spiegati fenomeni astronomici come le comete, i meteoriti e la stessa Via Lattea). Il moto circolare uniforme (ipotesi parzialmente disattesa da Tolomeo con l'introduzione dell'equante), che è elemento descrittivo della cinematica degli astri, è eternamente uguale a se stesso; perciò la natura mutevole e mortale della Terra si contrappone alla immutabilità eterna del cielo, in cui da sempre l'uomo ha collocato la dimora degli dei. Nell'universo aristotelico la superiorità del cielo trova riscontro anche nell'incorruttibilità dell'etere e quindi degli astri, che di etere sono costituiti.

La trasmissione del moto dalle sfere più esterne a quelle più interne (che si verifica in ogni singolo cielo nel modello delle sfere omocentriche e tra i cieli dei vari astri nel modello Tolemaico) è garantita dalla materialità dello spazio (dall'horror vacui) che spiega anche il già citato disordine indotto dal moto lunare negli elementi terrestri. La natura divina del cielo e la possibilità di un'influenza fisica delle sfere celesti l'una sull'altra e quindi anche sulla Terra conduce alla rivalutazione dell'Astrologia nel quadro del sapere. In questo quadro di estrema coerenza, in cui ogni affermazione appare in accordo con l'altra, ogni innovazione sostanziale non può risultare convincente se non è sostenuta da argomentazione altrettanto evidenti e logiche.

Si capisce facilmente, ad esempio, che Aristotele rifiuta l'ipotesi della rotazione della Terra intorno a se stessa affermata da Eraclide Pontico, che attribuisce ad essa giustamente l'apparente rotazione diurna della volta celeste. Aristotele confuta anche questa ipotesi ricorrendo all'esperienza (sebbene l'interpretazione che ne indica sia errata): se la terra ruotasse, afferma, tutti gli oggetti in aria, le nuvole e gli uccelli e gli stessi oggetti che lanciamo, dovrebbero spostarsi in verso opposto alla rotazione della Terra. Anche se l'aria si spostasse con noi, non riuscirebbe a trascinare con sé un oggetto lanciato verso l'alto perché troppo densa.

 

La misura delle distanze astronomiche: Aristarco e Eratostene.

Già detto di Aristarco e del suo modello eliocentrico, nonché dei motivi per cui fu respinto dai suoi contemporanei, occorre ricordare il suo contributo importante al progresso del Astrometria (insieme delle tecniche empiriche e di calcolo che servono a determinare le distanze astronomiche).

Per la prima volta con Aristarco il problema delle distanze Terra-Luna e Terra-Sole viene affrontato con rigore e risolto con alcune brillanti intuizioni. Per la verità Aristarco che non disponeva ancora di una misura valida del raggio poté trovare soltanto i rapporto tra la distanza T-L e il raggio della Terra e il rapporto tra la distanza T-S e la distanza T-L. La prima fu ottenuta durante un eclisse di Luna, confrontando il tempo impiegato dalla Luna ad entrare interamente nel cono d'ombra della Terra com il tempo impiegato dalla Luna ad attraversarlo completamente; ciò ,ammettendo che la Luna si muovesse con velocità costante, permise di trovare che il diametro della Terra era 3 volte quello della Luna. Stimate poi le dimensioni angolari della Luna (Aristarco trovò che il Sole e la Luna avevano un diametro apparente di 2° entrambi) mise in proporzione la circonferenza completa percorsa dalla Luna, l'angolo giro, il diametro reale della Luna ed il suo diametro apparente. Da un semplice calcolo risultava che il raggio dell'orbita lunare risultava essere 19 volte il raggio della Terra. Il rapporto tra T-S e T-L venne invece calcolato grazie al metodo della “Dicotomia lunare”, così denominato per il fatto che per poterlo realizzare occorreva che la Luna fosse illuminata per metà del suo disco; inoltre occorreva che la Luna e il Sole fossero entrambi sopra l'orizzonte. La prima delle due condizioni si verifica quando la linea che congiunge il Sole alla Luna è perpendicolare a quella che congiunge la Terra alla Luna; in tal modo il triangolo TLS è rettangolo in L e la misura dell'angolo con vertice in T, possibile appunto quando Sole e Luna erano entrambi visibili, permetteva di trovare il rapporto tra il cateto TL e l'ipotenusa TS; esso risultò all'incirca uguale a 19. Tuttavia per eliminare l'indeterminazione presente nei risultati di Aristarco occorreva conoscere il raggio terrestre; a ciò provvide l'astronomo e matematico alessandrino Eratostene (276-195 a.C.). Di lui furono tramandate due opere: le “Elevazioni degli Astri”, descrizione di una cinquantina di costellazioni, delle stelle che le compongono e della loro storia) e l'“Indice degli Astri”, catalogo di dati astronomici contenente 500 stelle nel quale vengono corretti i dati di Eudosso riportati in versi nell'opera del poeta Arato “I fenomeni”, e che rappresenta il proseguimento del tentativo di elaborare un catalogo stellare intrapreso da Aristillo e Timocari 150 anni prima.

Eratostene grazie alla misurazione del raggio terrestre riuscì anche a ottenere stime più precise delle distanze TL e TS; infine riuscì a stimare l'inclinazione dell'eclittica rispetto all'equatore celeste. La misura del raggio della Terra in particolare fu ottenuta dalla lunghezza dell'arco di meridiano compreso tra le due città di Alessandria e Siene (nei pressi dell'odierna Assuan), lungo 5.000 stadi, corrispondenti a 800 chilometri, e dalla lunghezza dell'ombra, misurata nelle due località al solstizio estivo a mezzogiorno, di un tipo di meridiana collocata su di una semisfera e detta “scafio”, che doveva fornire la differenza di latitudine tra le due località (ricavata dalla diversa inclinazione dei raggi solari); per fare ciò sfruttò il fatto che Siene, trovandosi al tropico del Cancro, ha il Sole allo zenit al solstizio d'estate e quindi l'ombra della meridiana non è visibile. Poiché la differenza di latitudine tra due luoghi collocati sullo stesso meridiano è angolo al centro corrispondente all'arco di meridiano a delimitato dagli stessi, dalla proporzionalità diretta tra archi e angoli al centro Eratostene ricavò la proporzione:

360° : ° = 2r : a

dalla quale è possibile poi ricavare la circonferenza del meridiano e quindi il raggio. L'intera circonferenza fu stimata di 25.0000 stadi corrispondenti a circa 39.400 chilometri (misura molto vicina a quella attuale di 40.000 chilometri), ed il raggio fu stimato di 6.270 chilometri.

Studiosi dell'età latina quali Vitruvio, Plinio il Vecchio e Marziano Capella narrano che dopo Eratostene vennero fatte nell'antichità altre misure che corressero il valore della lunghezza del meridiano terrestre portandolo a 252.000 stadi, ovvero a 39.700 chilometri. In particolare il re egiziano Tolomeo incaricò un gruppo di astronomi (mensores regios Ptolomaei) di effettuare questa misura.

Dopo aver misurato il raggio della Terra, Eratostene si dedicò alla misura delle distanze e Terra-Luna e Terra-Sole, le cui principali fonti di errore erano legate alla difficoltà di misurare direttamente le distanze angolari nella volta celeste e i diametri apparenti. In particolare Aristarco aveva sovrastimato il diametro apparente della Luna, che risultò di 2° cioè 4 volte quello reale, e sottostimato l'angolo Luna-Terra-Sole nell'applicazione del metodo della dicotomia lunare.

Probabilmente Eratostene utilizzò i dati di Aristarco per il diametro apparente della Luna, e lo stesso procedimento usato dal suo predecessore, ottenendo un'ottima misura di 780.000 stadi corrispondenti a 123.000 chilometri (circa 1/3 della distanza reale che è di 384.000 chilometri). La validità della misura di Eratostene è tanto più apprezzabile se si riflette sull'influenza della sovrastima del diametro apparente lunare sulla misura cercata (maggiori sono le dimensioni apparenti e minore risulta la distanza).

Pare poi che verso la fine della sua vita sia divenuto cieco a causa delle numerose osservazioni fatte per determinare il diametro apparente e la posizione del Sole: Eratostene infatti si dedicò anche alla misurazione indiretta della distanza Terra-Sole con il metodo della dicotomia lunare, ricavando secondo alcuni filologi una stima pari a 4.080.000 stadi, mentre per altri una misura di 804000000 stadi corrispondenti a 126 milioni di chilometri, molto vicina a quella reale (149.600.000 chilometri), e della obliquità dell'eclittica osservando le posizioni occupate dal Sole a mezzogiorno nel corso dell'anno a Siene; qui, come si è già visto, il Sole al solstizio si trovava allo zenit e lo spostamento angolare massimo compiuto in sei mesi fino al solstizio invernale portava il Sole a una distanza angolare di 11/83 di angolo giro (circa 47° 30') dalla verticale. La metà di quest'angolo rappresentava la suddetta inclinazione della linea del moto apparente annuo del Sole rispetto all'equatore.

 

Conclusione.

Il nostro viaggio nella storia dell'Astronomia e della Cosmologia greca ci ha mostrato come un popolo privo di tecnologia, con la sola forza della sua intuizione e della sua ragione e vitalità intellettuale sia riuscito non solo a costruire strutture del pensiero ampie e complicate, ma anche e soprattutto a gettare le basi per lo sviluppo delle moderne metodologie scientifiche.

E ciò richiama alla mente quello che Galileo Galilei scrisse a Fortunio Liceti, professore di Filosofia alle Università di Padova e Bologna, nel 1640: «...se Aristotele vedesse le novità scoperte novamente in cielo, dove egli affermò essere alterabile e immutabile, perché niuna alterazione vi si era sino ad allora veduta, indubitamente egli, mutando opinione, direbbe ora il contrario: chè ben si raccoglie che, mentre ei dice il cielo essere inalterabile perché non vi si era veduto alterazione, direbbe ora essere alterabile, perché alterazioni vi si scorgono...».

 

BIBLIOGRAFIA

 

Si ringrazia la professoressa Claudia Fiorentini
per la preziosa collaborazione alla stesura del presente articolo.

 

Monografia n.2-1996/2


Torna alla Home Page di Testi & Trattati