ANTICHI VIAGGI NEL COSMO
di Oriano Spazzoli

stampa del 1800

 

Il cielo e gli dei

Da quando l’uomo, alzando gli occhi al cielo, di giorno osservò per la prima volta il lento scorrere del Sole sull’azzurro incontaminato di un cielo antico, e nell’oscurità della notte contò decine e decine di piccoli punti luminosi che come occhi benevoli vegliavano sul suo sonno tormentato, e contemplò, con il lieve respiro della notte nel petto, il pallido malinconico volto della Luna ed il suo ciclico nascondersi e riapparire, l’emozione profonda di fronte a quel mistero eterno ed eternamente uguale, gli fece collocare nella volta celeste la dimora degli dei. I suoi dei erano divinità grandi e forti, divinità che agivano sulla sua vita e sul suo destino, e che per questo dovevano essere in grado di vederlo in ogni momento, averne sotto gli occhi i movimenti, leggerne i pensieri e le intenzioni, perché la Terra, e l’uomo su di essa, di quell’Universo “bambino” erano la parte principale.

Il cielo era un soffitto (piatto per gli Egizi, a volta sferica per i Babilonesi e per il popolo d’Israele) sul quale gli astri scorrevano secondo la volontà divina, poco sopra le nuvole, anche se con un ritmo assai più regolare, che scandiva i tempi delle trasformazioni della natura e della vita delle genti umane.

Così l’osservazione del cielo divenne compito esclusivo dei sacerdoti ministri di un culto inteso come rapporto tra l’uomo e gli dei regolatori dei cicli naturali e principali artefici e responsabili della sua esistenza e della sua sopravvivenza.

Poi nell’antica Grecia l’abbondanza di risorse, la fortuna e la prosperità delle attività umane permisero la realizzazione della prima rudimentale forma di democrazia, la “polis”. Nel suo contesto la partecipazione collettiva alle scelte dello stato, che esigeva un’analisi razionale delle situazioni e delle alternative possibili, contribuì a rendere la ragione facoltà principale dell’intelletto umano; la filosofia divenne la più profonda espressione del sapere umano e lo scenario celeste divenne uno schema governato da leggi ben definite, geometriche e fisiche, divenne cioè “Cosmologia razionale”, pur tuttavia il cielo rimase qualcosa di lontano ed estraneo all’uomo per sostanza e funzione.

Restò tra i principi fondamentali della fisica aristotelica l’idea, mutuata dalla tradizione più antica, che le sfere celesti concentriche alla Terra in cui l’Universo era organizzato fossero di natura divina, eterne e immutabili, e pertanto fatte di materia incorruttibile (“l’etere” o “quintessenza”) e in moto circolare uniforme, l’unico moto eternamente uguale a se stesso, e la contrapposizione tra le stesse sfere e il mondo caduco e mortale della Terra, ritenuta immobile al centro dell’Universo. La dicotomia netta tra questi due mondi diversi, si esprimeva anche nell’impossibilità di qualsiasi rimescolamento tra la materia cristallina delle sfere celesti e i quattro elementi materiali del mondo al di sotto della Luna (l’astro più interno).

Si può allora immaginare lo sdegno che nella cultura ufficiale e nell’autorità religiosa poterono provocare, addirittura in epoca pre-aristotelica (nel V secolo a.C.), affermazioni quali quelle di Anassagora, secondo cui gli astri non erano in realtà nient’altro che rocce infuocate, come sembrava suggerire il ritrovamento di alcuni frammenti meteorici.

 

Il viaggio nel cielo: un sogno ambizioso ed empio

Eppure l’immaginazione e il sogno, ancora confusi con l’osservazione della realtà, fornirono nell’antichità all’uomo un paio di ali leggere con le quali realizzare due sue aspirazioni segrete ed impossibili: poter emulare il volo degli uccelli, facendosi beffe di una frustrante, rigida e ottusa legge di natura che lo voleva da sempre e per sempre con i piedi saldamente appoggiati sul suolo, e poter valicare il netto confine tra Terra e Cielo, tra umano e Divino, aspirando così alla suprema potenza della divina autorità sul mondo e, soprattutto, alla più ambita delle facoltà che gli dei possedevano, l’immortalità.

Ma il sapere della nostra cultura mediterranea, è da sempre fondato su di un rapporto diretto con la realtà sensibile, sulla sua constatazione ed analisi diretta; la visione ed il sogno vi hanno avuto nel passato della nostra cultura una funzione premonitrice o di strumento scelto dagli dei per comunicare il loro volere agli umani. In ogni caso sogno e visione acquistano valore in quanto legati alla realtà ma non fanno parte della realtà.

Ecco dunque che il desiderio di volare, di librarsi nel cielo tra le nuvole e ancora più su tra gli astri del giorno e della notte, diventava illegittima volontà di sfida, violenza contro le sacre leggi della Natura, o, in una sola parola, “empietà”. Come tale doveva essere punito dai tutori dell’ordine naturale.

 

La punizione divina: Icaro, Fetonte e Bellerofonte

Cacciato da Atene per aver ucciso il cugino Talo, dopo averlo attirato con un pretesto sul tempio di Atena sull’Acropoli e spinto giù dal cornicione, Dedalo, ottimo fabbro ed inventore abile e ingegnoso, si rifugiò a Creta presso il re Minosse, il quale lo accolse con gli onori che si dovevano ad un uomo di ingegno e di chiara fama quale era Dedalo. Quando Minosse però venne a conoscenza del fatto che Dedalo aveva favorito l’accoppiamento della regina Pasifae, sua moglie, con il toro bianco di Poseidone, dio del mare, lo rinchiuse nel Labirinto, progettato dallo stesso Dedalo, insieme al figlio adolescente Icaro. Pasifae li liberò entrambi, ma Dedalo e Icaro non poterono fuggire subito da Creta, perché Minosse sorvegliava tutte le navi.

Così Dedalo pensò di fabbricare due paia di grandi ali fatte di penne e piume di uccelli: le penne erano intrecciate tra di loro, mentre le piume erano tenute insieme con della cera. Quando le ali furono pronte e Dedalo le legò sulle spalle di Icaro, con le lacrime agli occhi raccomandò al figlio di non volare né troppo alto perché il Sole avrebbe sciolto la cera né troppo basso perché l’acqua del mare avrebbe inumidito le piume. «Seguimi» aggiunse «e non cambiare direzione», quindi infilò le braccia nelle ali e si levò in volo.

Quando ebbero sorvolato le isole di Nasso, Delo e Paro, però, Icaro inebriato dalla velocità e dalla sensazione di leggerezza del volo, volle salire ancora di più e disattese i consigli del padre; così si avvicinò troppo al Sole, il cui calore sciolse la cera che teneva insieme le piume, perse quota, l’acqua del mare bagnò quel che restava delle sue ali e Icaro, caduto in mare, fu da esso inghiottito inesorabilmente.

Quando Dedalo si volse indietro a controllare che il figlio lo seguisse da presso, non lo vide più. Subito tornò indietro a esplorare la superficie del mare, ma inizialmente trovò soltanto le penne e le piume delle ali galleggianti sull’acqua. Poi riemerse anche il corpo senza vita del figlio e Dedalo, piangente, lo raccolse e lo portò su di una vicina isola (denominata successivamente Icaria) e ve lo seppellì.

Icaro, dunque, che contravviene alle raccomandazioni paterne, preziose per la sua vita, perché non riesce a dominare l’esaltazione che prova nel volo, diviene il simbolo dell’ambizione, delle emozioni incontrollate, ma anche, nei primi secoli del cristianesimo, del desiderio dell’anima di salire al cielo spinta da passioni erronee. Forse è anche l’incoscienza irriverente dell’uomo che, librandosi nell’aria, non solo viola l’ordine naturale, ma perde anche la consapevolezza dei limiti che la natura gli ha imposto.

Ad una simile interpretazione si presta la storia di Fetonte, figlio di Elio e fratello di Selene, a loro volta generati dal titano Iperione; Elio conduce ogni giorno il carro che trasporta il Sole lungo il suo percorso diurno da uno splendido palazzo all’estremo oriente ad un altro collocato dalla parte opposta, ad occaso. Qui Elio scioglie i cavalli e li lascia pascolare nell’isola dei beati; poi carica cocchio e cavalli su di una nave dorata costruita da Efesto e navigando lungo il fiume Oceano ritorna ad oriente. Fetonte desiderava sopra ogni cosa di guidare il carro del Sole e insistette tanto affinché il padre gli concedesse l’opportunità di farlo, che il padre un giorno gli concesse di sostituirsi a lui anche se per un solo giorno, pur raccomandando al figlio di mantenersi ad una distanza giusta dalla Terra, perché se si fosse allontanato troppo da essa gli uomini avrebbero sofferto e sarebbero morti per il freddo, se invece le si fosse avvicinato troppo, ne avrebbe arso il suolo. Fetonte allora, volendo dare prova di abilità alle sorelle Climene e Prote, spronò i cavalli conducendo il carro ad una velocità così elevata da perderne il controllo. Il Sole schizzò via dal suo percorso e arse la volta celeste lungo un cerchio massimo, che corrisponde all’odierna Via Lattea. Zeus adirato con Fetonte per il danno arrecato al mondo e per l’incoscienza e l’irresponsabilità che egli aveva dimostrato, lo colpì con un fulmine facendolo precipitare nel fiume Po (forse rappresentato nel cielo con la costellazione dell’Eridano), mentre le sorelle, piangenti, furono trasformate nei pioppi che crescono abbondanti sulle sue rive.

Sia il viaggio di Icaro che quello di Fetonte, per i loro scopi (la fuga per Icaro, al guida del carro del Sole per Fetonte) tutto sommato legittimi, non costituiscono tanto espressioni di una chiara volontà umana di emulare il divino, quanto prove dell’esistenza di limiti oggettivi e invalicabili per l’uomo.

Ancora più grave fu la colpa di Bellerofonte, figlio di Glauco e nipote di Sisifo, artefice di grandi imprese mitologiche, che abbandonata la città di Corinto avvolto in una nube, dopo avervi ucciso un certo Bellero (da cui il nome di Bellerofonte) ed il proprio fratello, si rifugiò presso Preto, re di Tirinto. Ma quando la regina Antea, innamoratasi di lui, gli si offrì, egli rifiutò le sue profferte per lealtà nei confronti del re. Allora Antea, offesa, all’insaputa di Bellerofonte lo accusò di aver tentato di sedurla e Preto credette alle parole della moglie. Tuttavia Preto non volle uccidere Bellerofonte, che era suo ospite, per non uccidere chi gli aveva chiesto ospitalità supplicando, ma lo inviò da Iobate, re di Licia e padre di Antea, informandolo con una lettera della riprovevole condotta di cui Antea aveva accusato Bellerofonte. Anche Iobate però non volle venire meno al sacro dovere dell’ospitalità uccidendo Bellerofonte, ma per punirlo non direttamente delle sue presunte colpe, gli commissionò un’impresa suicida: uccidere la Chimera, un mostro con il corpo di leone, la testa di una capra, la coda di un serpente e l’alito infuocato. Bellerofonte consultò allora l’indovino Poliido che lo consigliò di catturare il cavallo alato Pegaso, nato dal sangue di Medusa uccisa da Perseo (infatti la costellazione di Pegaso si trova vicino a quella di Perseo), che viveva sul monte Elicona, sul quale con un colpo di zoccolo aveva fatto sgorgare la fonte Ippocrene. Si narra che Bellerofonte trovò Pegaso presso un’altra fonte, la fonte Pirene, sull’Acropoli. Con l’aiuto di Atena, Bellerofonte domò Pegaso e lo imbrigliò. Quindi a cavallo di Pegaso piombò dall’alto sulla Chimera, la colpì con molte frecce e le conficcò un blocco di piombo tra le mascelle; essa con l’alito di fuoco lo fuse ed il piombo fuso le scese giù per la gola bruciandole le interiora. Quando tornò da Iobate, questi, infastidito dal fatto che fosse tornato illeso, gli commissionò un altro pericoloso incarico: combattere i pericolosi Solimi e le loro alleate, le Amazzoni. Bellerofonte assolse anche questo compito, forte del fatto che cavalcando Pegaso poteva restare ad un’altezza tale che le frecce dei suoi nemici non potevano raggiungerlo.
Quando poi tornò ancora da Iobate, questi invece di accoglierlo con gli onori dovuti ad un vincitore, schierò contro di lui le guardie reali, ma Bellerofonte accortosi delle intenzioni ostili di Iobate, pregò e ottenne da Poseidone che gonfiasse le acque del fiume Xanto inondandone la piana alle sue spalle mentre avanzava verso il palazzo reale. Accadde allora che le donne xantie, per proteggere le loro dimore e le loro famiglie, decisero di andare incontro a Bellerofonte con le vesti innalzate, per offrirsi al suo piacere. Ma Bellerofonte, di fronte ad esse invece di approfittare del fatto che esse gli si concedevano, volse le spalle al palazzo reale e tornò sui suoi passi desistendo da qualsiasi proposito bellicoso nei confronti di Iobate. Solo allora il re si accorse dell’onestà di Bellerofonte e dell’infondatezza delle accuse che gli erano state rivolte da Preto e, per farsi perdonare nonché per premiarlo per il suo valore ed il suo coraggio, lo nominò successore al trono di Licia e gli concesse in sposa la figlia Filinoe. Ma Bellerofonte, inquieto e ambizioso com’era, non era affatto pago del suo successo che pure gli avrebbe procurato prosperità e serenità per il resto dei suoi giorni. Egli voleva molto di più; così in preda ad una insana, delirante esaltazione, sempre a cavallo di Pegaso volle salire sull’Olimpo e trovare posto tra gli dei. Allora Giove per punirlo, inviò un tafano che punse Pegaso sotto la coda. Il cavallo alato imbizzarrito disarcionò il suo folle cavaliere che ricadde così sulla Terra. Bellerofonte sopravvisse alla caduta, ma ne fu profondamente ferito nel corpo e nell’animo e finì i suoi giorni cieco e storpio, vagando da solo per strade poco battute, per sottrarsi alla vista degli uomini. Bellerofonte resta il simbolo degli eccessi dell’ambizione dell’uomo che inebriato dalle proprie imprese vuole divenire suprema autorità.

 

L’uomo e il cielo in altre culture

Se nelle storie che abbiamo appena riassunto in breve, si coglie la rigidezza della suddivisione tra umano e divino e l’illegittimità non solo dell’aspirazione, ma perfino dell’avvicinamento fisico dell’uomo a ciò che è divino, in diverse culture “primitive”, nelle quali il rapporto con la natura non è limitato allo sfruttamento o alla scelta di strategie di sopravvivenza, il culto religioso è ispirato ad un panteismo che identifica la natura stessa in tutte le sue varie forme con il divino in tutti i suoi aspetti. E poiché essa è qualcosa di dinamico, in continua evoluzione e trasformazione, anche il divino deve essere qualcosa di dinamico che si esprime in varie forme. Inoltre la chiave di lettura del mondo sensibile per queste civiltà è decisamente più semplice e tende ad appianare le differenze di peso che esistono tra i vari fenomeni naturali, differenze evidenziate da un’osservazione analitica e rigorosa come quella degli antichi Greci; forse anche per questo ai fenomeni celesti non un rilievo tanto maggiore rispetto a quelli terrestri.

I Greci non si limitano a osservare la ciclicità dei movimenti del cielo; essi individuano un linguaggio astratto che serve a descrivere tale ciclicità, a rappresentarne l’ordine, visto come massima espressione dell’organizzazione dell’universo. Il Cielo invece per molte culture di antica tradizione, diverse dalla nostra, è una parte della natura, con la stessa dignità della foresta, del fiume o del mare, della montagna, e l’uomo può raggiungerlo arrampicandosi su una montagna più alta delle altre o, trasformandosi in un uccello e spiccando il volo, perché non è necessario costruire un paio di ali per volare se il sogno può dotare l’uomo di ciò che le sue capacità fisiche non gli consentono. Dunque il sogno e la visione sono una parte della realtà che ha lo stesso rilievo di ciò che i sensi percepiscono e l’uomo può salire nel cielo e lanciarsi in volo senza violare alcuna ferrea legge imposta da dei superbi e lontani.

 

Uomini tra le stelle

Un’antica leggenda irochese (gli irochesi sono un popolo autoctono dell’America nord-orientale) narra di un vecchio divenuto ormai troppo debole per cacciare o lavorare, che ritenendo di essere divenuto un peso inutile per la propria tribù, decise di allontanarsi per andare a morire da solo in un luogo lontano; scelse a questo scopo la cima di una montagna e vi si arrampicò faticosamente con un bastone in mano e una gerla sulle spalle contenente gli oggetti a lui più cari. Giunto sulla cima della montagna, il vecchio cominciò a intonare il suo canto di morte, pregando che il suo viaggio potesse continuare anche dopo la vita terrena. Il suo canto risuonò nell’aria riempiendo presto la piana sottostante, e giunse fino al suo villaggio, nel quale la gente riconosciuta la voce del vecchio interruppe il lavoro e volse lo sguardo verso il punto dal quale proveniva quel canto triste. Tutti allora videro il vecchio salire lentamente verso il cielo tra le stelle, dove si dice che si trovi ancora oggi nella costellazione di Orione. Si narra anche che il vecchio non morì, ma giunto nel cielo recuperò la sua forza e la possibilità di essere di nuovo utile non solo per il suo popolo, ma anche per tutte le altre genti: da allora infatti egli trasporta il Sole nella sua gerla lungo il suo percorso diurno, fornendo luce e calore a tutti gli uomini sulla Terra. Quando poi d’inverno la stanchezza appesantisce i muscoli del vecchio, egli passa la sua gerla al figlio che la porterà durante i mesi invernali nei quali il vecchio si riposa. Tuttavia, come ben si sa, i giovani cercano di lavorare e faticare il meno possibile, per questo motivo il figlio trasporta il Sole sull’orizzonte per un numero di ore minore mantenendolo più basso di quanto non lo tenga il vecchio, ed i giorni invernali risultano più freddi di quelli estivi. Alla fine dell’inverno il vecchio, dopo il suo lungo riposo invernale, riprenderà la gerla con il Sole sulle spalle riconducendoli nel cielo e dispensando di nuovo luce e calore agli uomini.

Dunque il cielo in questo caso, chiamando a sé il vecchio gli ha accordato ciò che il mondo terrestre ormai non poteva più concedergli: la vita, la forza e una funzione importante per gli uomini. Il cielo è quindi, in questo caso, complemento della Terra.

In un’antica leggenda del popolo dei Tewa (nella parte sud-occidentale dell’odierno territorio degli Stati Uniti d’America), il grande capo lunga Fascia, in un momento difficile per la sua gente decise di condurre con sé la sua gente nel cielo lungo la Via Lattea. Il suo popolo lo seguì, ma poco tempo dopo qualcuno cominciò a lamentarsi per la lunghezza e la difficoltà del cammino; allora Lunga Fascia interruppe il cammino fermandosi in prossimità di due stelle vicine, denominate “i gemelli” (le due stelle principali della tradizionale costellazione dei Gemelli); qui rimproverò coloro che si lamentavano invitandoli ad andarsene qualora non si sentissero in grado di proseguire. Il luogo in cui si tenne tale riunione venne detto “posto della decisione”. Tutti decisero di seguire Lunga Fascia, ma di lì a poco, poiché ancora non si intravedeva la meta del viaggio, le lamentele tornarono a farsi sentire e qualcuno cominciò a dubitare della sua abilità nel comando. Allora Lunga Fascia e la sua gente si fermarono di nuovo ed egli sedette e si tolse il copricapo appoggiandolo nel punto in cui ora si trovano le Pleiadi (che rappresentano infatti il copricapo di Lunga Fascia). Il luogo della nuova sosta venne denominato “posto del dubbio”. Alla fine Lunga Fascia decise di condurre il suo popolo nella Terra di Mezzo, dove ancora oggi egli si trova, e che corrisponde alla costellazione di Orione.

Secondo una leggenda Kiowa l’ascesa verso il cielo offrì una possibilità di salvezza a sette ragazze, che, mentre si rincorrevano per gioco, vennero aggredite da un gruppo di orsi affamati. Esse cercarono subito di fuggire, ma si resero ben presto conto di essersi spinte troppo lontano dal loro villaggio e di essere troppo lente per poter sfuggire agli orsi; così decisero di salire sulla cima di un piccolo masso e lì pregarono la roccia di salvarle. Poiché le ragazze erano buone di cuore lo spirito della roccia ascoltò le loro preghiere; così all’improvviso il masso cominciò a crescere divenendo una montagna altissima, mentre gli orsi affondavano gli artigli nella roccia nel vano tentativo di salire per raggiungere le loro prede. Il masso crebbe fino a condurre le fanciulle in cielo, dove ancora oggi si possono vedere come le sette stelline che formano le “Pleiadi”, dette anche “le sette sorelle”. Anche la roccia è ancora oggi visibile: il suo nome è Mateo Tipi (si trova nel Wyoming e gli Americani la chiamano “Devil’s Tower” o “Torre del Diavolo”).

Anche nella seguente antica leggenda estone, la salita al cielo di un essere umano rende possibile la genesi di una parte del cielo; essa spiega la nascita della Via Lattea. È la storia di Lindu, meravigliosa fanciulla, figlia di Uko, dio del Cielo e del Tuono. Ella era amica di tutti gli esseri e da tutti era amata; in particolare proteggeva gli uccelli assicurandosi che le loro migrazioni fossero prive di difficoltà e indicava loro i luoghi ove nidificare. Era così bella che tutti gli uomini si innamoravano di lei e desideravano sposarla, ma ella trovava ogni volta motivi per rifiutare le altrui proposte di matrimonio. Quando le si offrì Stella Polare ad esempio ella declinò rispondendo: «Tu resti sempre nello stesso posto e non puoi muoverti da lì; per me è troppo noioso, non posso sposarti». Rifiutò il Sole perché troppo costante e la Luna perché troppo mutevole.

Quando pareva che ormai nessuno più potesse conquistarne i favori, incontrò Aurora Boreale mentre viaggiava sulla sua carrozza ornata di diamanti e trainata da mille cavalli bianchi. A Lindu piacquero i suoi doni, più pregiati di tutti quelli che aveva ricevuto fino ad allora, ma più di tutto le piacque il modo in cui Aurora Boreale danzava nel cielo, mostrandosi nella sua meravigliosa bellezza. Ella non poté fare a meno di lodarne le virtù: «Tu non sei sempre uguale,» disse «vai e vieni come ti piace e ogni volta indossi abiti splendidi sempre nuovi. Tu sei colui che sposerò.»

Al cospetto di Sole, Luna e Stella Polare, tristi e delusi, Lindu e Aurora Boreale si fidanzarono. Di lì a poco però Aurora dovette ripartire; disse a Lindu che doveva a tutti i costi tornare verso Nord intorno a mezzanotte, ma promise che sarebbe tornato. Trascorse il primo giorno e al tramonto Aurora non era tornato; Lindu rimase ad attenderlo sospirando. Purtroppo Lindu lo attese invano anche il secondo giorno, il terzo e tutti i giorni seguenti. Alla fine Uko, impietositosi nel vedere la bellezza di Lindu consumarsi nella pena della vana attesa, chiamò i venti perché la sollevassero da terra e la portassero in cielo ove la sua anima triste avrebbe trovato la quiete. Lì si trova ancora oggi: se ne può ancora vedere il velo nuziale sollevato dal vento che fluttua da un’estremità all’altra del cielo.

 

Conclusioni

Migliaia di anni di evoluzione hanno trasformato in realtà prima il sogno del volo, poi quello del viaggio nell’Universo; oggi la tecnologia permette all’uomo di spingere il suo occhio fin quasi al limite dell’intero universo visibile, gli consente di “vedere” per mezzo di sensori a frequenze non ottiche galassie in formazione e addirittura di captare il debole segnale residuo dell’esplosione che 15 miliardi di anni fa segnò l’inizio della vita del nostro universo.

Il viaggio nel Cosmo è uscito dal dominio della fantasia umana ed è divenuto complessa ricerca di una frontiera tra il possibile e l’impossibile. Ma la mente umana ha mantenuto la sua capacità di spingersi oltre i limiti fisici e immaginare l’infinito e l’infinitesimo. Sembra impossibile stabilire un legame tra le complicate problematiche tecnologiche e teoriche del presente e i semplici pensieri di un passato così lontano e diverso. Eppure possiamo senz’altro ritenere che il lungo cammino che ci ha condotto fino ad oggi, iniziato dalla visione del mondo più ingenua e semplice, ha avuto proprio il primo impulso dalla curiosità, intrisa anche di risvolti dell’animo umano considerati insani come l’ambizione o l’incoscienza, ed è progredito nella perenne battaglia tra la passione per la ricerca e la paura della trasgressione, spinto anche dall’immaginazione sfrenata di qualche pazzo visionario che, talvolta deriso e maltrattato, indicava all’uomo strade segrete e scenari nascosti che solo lui poteva vedere.

La società umana si è evoluta, ma è bello comunque pensare alle intense emozioni provate un tempo di fronte al grande spettacolo della natura e dalle quali nascevano storie fantastiche, ma è ancora più bello pensare che quelle emozioni possono essere risvegliate dalla contemplazione di quei piccoli punti luminosi che brillano nel cielo notturno.

 

Bibliografia:

 

Si ringrazia la prof.ssa Anna Franceschelli per la gentile
collaborazione fornita alla stesura del precedente testo.

 

Monografia n.54-2000/13


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