di Franco Gàbici
24 settembre1974, il telescopio dell'ARAR
all'inaugurazione del primo osservatorio
sociale all'aeroporto La Spreta di Ravenna.
Probabilmente la nostra città, Ravenna, non è che si presti a un discorso ordinato, organico nell'astronomia: non c'è una storia dell'astronomia in Romagna anche perché qui da noi sono mancate le scuole, sono mancate le istituzioni. Quindi compilare o raccontare una storia dell'astronomia in Romagna significa innanzitutto presentare tutta una serie di personaggi, tutta una serie di medaglioni, come li chiamo io, che nel loro insieme possono ricomporre un itinerario astronomico con un certo senso, con una certa logica.
Quando il Planetario di Ravenna è stato inaugurato, il primo giugno 1985 (foto), mi sono preoccupato di vedere se nel corso del tempo fossero esistiti dei precedenti di tipo astronomico nella nostra città o comunque nella nostra regione, anche per dare una giustificazione di tipo storico a questa struttura che molta gente considerava se non proprio una cattedrale nel deserto, perché qui non siamo nel deserto ma come un fungo nato per caso in questo bel giardino e quindi distaccato dal contesto.
Ho visto, invece, che a Ravenna ci sono stati dei precedenti astronomici, c'è sempre stato un rapporto intenso col cielo a cominciare anche dai nostri monumenti, dai nostri mosaici.
Ravenna, sappiamo tutti è una città famosa in tutto il mondo soprattutto per le sue chiese bizantine, per i suoi mosaici; se guardiamo quelli delle basiliche più importanti vediamo che il cielo è continuamente presente.
Ritornando ai mosaici, questi risalgono tutti al periodo di Teodorico e infatti volevo partire da Teodorico e Boezio.
Che cosa c'entrano Teodorico e Boezio con la storia dell'astronomia a Ravenna?
Se guardiamo la vita di questi personaggi troviamo elementi strettamente connessi con l'astronomia. Boezio, infatti, che è vissuto alla corte teodericiana oltre a essere un poeta è stato uno studioso, matematico, musicista e s'interessò anche di cosmologia. Questo fatto pesò sulla sua condanna perché ai quei tempi, chi s'interessava di scienza e in particolare di cose celesti, era un po' frainteso e veniva tacciato facilmente di magia; si fraintendeva questa passione per il cielo con risvolti di tipo magici che andavano comunque condannati. C'è da ricordare un altro aspetto molto interessante: il re Teoderico, 1500 anni fa, aveva condannato apertamente la magia e l'astrologia. Sulla condanna di Boezio pesò anche la sua identificazione come una persona che si interessava di astrologia. Siamo in un periodo in cui la scienza è vista ancora non secondo visioni strettamente razionali ma con un alone di magia e di diffidenza. Il re Teodorico è stato descritto da alcuni storici come un re ignorante ma oggi la storiografia ha superato questa tesi e ha dimostrato che, in effetti, era molto colto e saggio. Fra l'altro nelle memorie di Cassiodoro sta scritto un particolare che inquadra dal punto di vista astronomico la figura del re; racconta infatti che quando il re voleva riposarsi dalle fatiche del governo amava chiamare attorno a sé i collaboratori più stretti e pretendeva che leggessero le massime degli antichi e soprattutto voleva sentire parlare di stelle, di costellazioni, del cammino degli astri proprio perché era affascinato dalla astronomia. Anche il suo mausoleo fu molto probabilmente costruito tenendo presente dei criteri di tipo astronomico: il monoblocco di copertura con quei dodici lati richiama molto lo zodiaco, il suo significato non è ancora chiaro. Studi in corso, tedeschi, hanno preso in considerazione la cosa e anche italiani; il professor Giuliano Romano dell'università di Padova si sta interessando di questo fatto e se ci saranno risultati si farà una conferenza o una pubblicazione.
Dai tempi di Teoderico si passa, qui non c'è continuità dei personaggi, a un personaggio forse non molto conosciuto, Gerberto d'Aurillac. Dotto monaco francese, è stato arcivescovo di Ravenna a cavallo fra la fine del primo millennio e l'inizio del secondo. Poi dalla cattedra di Apollinare passò al soglio pontificio: divenne papa con il nome di Silvestro II. Questo personaggio in genere viene presentato solo dal punto di vista politico. Anche nella storia di Ravenna di cui è uscita recentemente il terzo tomo che parte da Teodorico e arriva proprio a Gerberto tratta questi personaggi, Boezio e d'Aurillac, senza fare il minimo accenno alle loro attività di tipo scientifico, e in particolare astronomico. Questo è un peccato perché vuol dire che ancora oggi la storia, cioè la cultura viene presentata solamente secondo certi percorsi che escludono automaticamente tutto quello che è scientifico.
Gerberto d'Aurillac è stato un personaggio che ha avuto un peso nella storia dell'astronomia: è stato uno dei primi precursori dei Planetari. Non planetario modernamente inteso come quello di Ravenna ma come qualche cosa che aiutasse a capire e a comprendere i misteri del cielo e i misteri dell'astronomia. Nella storia di Ravenna scritta da Mario Pierpaoli, seconda edizione (Longo editore, 1990), c'è un'appendice che reca la traduzione di alcuni passi che riguardano l'insegnamento di Gerberto d'Aurillac a Ravenna.
In uno di questi sta scritto: «Non è inutile dire con quanto sudore fu ordinata la tecnica per studiare l'astronomia, perché da una parte si comprenda la sagacità di tanto grande uomo e dall'altra il lettore, a completo suo agio sia conquistato dall'efficacia di questo sistema. Pur essendo essa quasi incomprensibile (l'astronomia; siamo intorno all'anno mille) egli (Gerberto d'Aurillac) tuttavia con l'uso di certi strumenti mirabilmente la ridusse a comprensione» (Richerus, libro III, capp. 50). Questo è il motto che poteva essere messo benissimo sulla porta del Planetario di Ravenna perché in fondo è anche questo lo spirito di tutti Planetari moderni, proprio il ridurre a comprensione una scienza che potrebbe apparire incomprensibile agli occhi di molti.
In concreto cosa fece nel campo
dell'astronomia?
Si mise a costruire dei globi di legno rivestiti di cuoio e sulla
superficie usando dei chiodi segnava le stelle più brillanti:
proprio un planetario ante-litteram. Inoltre questo globo era
attraversato da un tubo, nel testo è detto fistula,
che serviva per puntare la stella polare in modo che tutto il
globo celeste poteva assumere proprio l'esposizione a seconda del
tempo, della stagione in cui si faceva l'osservazione.
Sta scritto infatti: «Disposta così la sfera (vale dire puntando sulla stella polare) sull'orizzonte in modo che mostrasse opportunamente il sorgere e il tramontare delle costellazioni, inserì gli elementi naturali ordinatamente e li dispose a formare le costellazioni. Infatti di notte si dedicava alle stelle scintillanti e faceva notare come esse si volgevano nelle diverse regioni del mondo sia loro sorgere che al loro tramonto».
Inoltre sembra che Gerberto costruisse questi globi sia a scopo didattico ma anche per venderli, per scambiarli non con quattrini ma con libri per arricchire la sua biblioteca. Quindi lui lavorava per l'astronomia, costruiva di persona questi strumenti utili per la didattica, poi li barattava con dei libri: era questo in definitiva il suo scopo. Il personaggio molto interessante anche se ci spostiamo leggermente dal campo dell'astronomia perché Gerberto è stato uno dei primi a introdurre nel nostro mondo l'uso delle cifre arabe. Prima si faceva uso solamente della numerazione romana e Gerberto fu uno dei primi a usare le cifre arabe. A questo proposito costruì anche degli abachi, precursori dei calcolatori, e scrisse anche un trattato sull'abaco: quindi nella storia della matematica questa figura prima o poi emerge perché ha occupato un ruolo di primo piano. Sembra che costruisse un orologio lunare, un orologio notturno basato sui puntatori della stella polare ma di questo c'è solamente la descrizione anche se pare che qualche suo globo sia conservato ancora oggi. Oltre a questi globi pieni costruì diverse sfere armillari con le quali tentava di spiegare quali fossero i movimenti dei pianeti. Lo possiamo veramente considerare un grande precursore dei moderni studiosi anche se siamo sempre in un clima particolare.
È molto curioso considerare che sia Boezio sia d'Aurillac siano stati accumunati da un unico destino: anche Silvestro II venne tacciato di negromanzia proprio per l'interesse verso il cielo e i suoi fenomeni. Ai quei tempi la professione di astronomo era una abbastanza pericolosa, proprio perché chi si metteva in sintonia coi fenomeni celesti veniva tacciato di mago, di negromante.
Dopo queste figure dell'anno mille c'è un vuoto senza che dalle nostre parti succeda nulla, non c'è nessuno degno da essere ricordato, si arriva al 1600 quando si trova un personaggio che interessa particolarmente l'Associazione Astrofili di Ravenna (ARAR), ad esso dedicata: Rheyta. Personaggio un po' oscuro, non molto conosciuto, compare solamente nelle storie specialistiche dell'astronomia. Tanto per dire, Giacomo Leopardi, sui dieci anni ha scritto una storia dell'Astronomia; opera giovanile, è una storia compilativa come poteva farla un ragazzino e menziona questo nostro Rheyta. Facendo una piccola ricerca, soprattutto fra i testi della biblioteca di casa Leopardi risulta che c'era l'opera omnia di Pierre Cassendi e in essa compare Rheyta: probabilmente Giacomo vi ha attinto. Questo Rheyta che qui viene chiamato Rhaeta dal suo paese di origine, si chiamava Antonio Maria Shirleus ed era un uomo tutto strambo. Quando entrò nell'ordine dei cappuccini, come costumava allora e come costuma anche adesso, aggiunse al nome quello del suo paese. Ora ricordo che c'è sempre stata una difficoltà a scrivere il nome corretto di questo astronomo e in effetti non credo che esista a tutt'oggi una grafia esatta. I possibili luoghi di nascita di questo personaggio sono: Rheit in Boemia, Reit nel Tirolo, Reith nei pressi di Salisburgo, Rheydt in Renania e Ruette nel Tirolo.
Nessuno corrisponde alla grafia usata dall'Associazione Astrofili Ravennati, e comunque non esiste una grafia ufficiale per il nome di questo cappuccino. Le cose strane iniziano dalla data di nascita: oltre al luogo, con precisione, non si sa nemmeno la data. Anche l'anno di nascita è controverso; lui stesso all'entrata in convento prendendo i voti nel 1627 scrive di suo pugno di avere 23 anni, da cui risulta nato nel 1604, però le biografie ufficiali di questo cappuccino danno come anno il 1597. Il fatto di avere scelto il 1604 può avere una spiegazione di tipo astronomico.
Essendo un personaggio che si è sempre interessato di astronomia forse era rimasto colpito da quella data, una data importante nella storia dell'astronomia: la comparsa della stella Nova di Keplero e l'ha fatta coincidere con la data di nascita. Queste sono tutte illazioni, però resta il fatto che la biografia ufficiale dà il 1597 mentre lui dichiara il 1604.
Questo Rheyta centra con Ravenna, in quanto l'ultima parte della sua vita si svolge da noi, infatti è morto nel nostro convento dei cappuccini. Il motivo per cui si trovava da noi è un motivo che con l'astronomia non ha niente da vedere. Le accuse che lo portarono in esilio a Ravenna non avevano a che fare con le stelle del cielo ma con una suora di un vicino convento. Vi sono lettere appassionate in cui si professa innocente e può anche essere vero, anche perché essendo un personaggio che frequentava ambienti diplomatici, ben stimato dal Papa, poteva essersi inimicato tanta gente da suscitare questa calunnia. A parte questo, tutta la sua vita fu dedicata all'astronomia e soprattutto alla costruzione di strumenti ottici. In vecchie enciclopedie del 1700 lo ricordano come l'inventore del telescopio terrestre, vale a dire il telescopio che dà immagini diritte, non rovesciate. Viene ricordato anche come l'inventore del periscopio terrestre. Venne costruito e venne offerto al principe di Baviera che stava costruendo la nuova reggia e aveva il problema della sorveglianza dei lavori. Poi naturalmente venne utilizzato per scopi militari: si poteva vedere oltre gli ostacoli senza essere visti.
Tutte le grandi invenzioni, purtroppo, hanno sempre avuto applicazioni militari. Anche Galileo stesso quando offrì il suo cannocchiale ai Dogi di Venezia non disse della possibilità di osservare il cielo ma ne illustrò un impiego militare quale il riconoscimento delle navi prima dell'entrata nel porto. Non solo Rheyta era un abile costruttore ma è rimasto nella storia dell'Astronomia per la sua abilità di creare una teoria a supprto degli strumenti. Ha lasciato diverse testimonianze sull'uso delle lenti, sulla loro molatura. Era un tipo molto in gamba a propagandare e a vendere gli strumenti prodotti riuscendo a battere la concorrenza anche degli olandesi, molto ferrati in materia. Non era solamente un astronomo che guardava il cielo senza alcuna tangenza coi problemi quotidiani, era un personaggio che faceva convivere le due cose. Il cappuccino Rheyta è stato uno dei primi a redigere una mappa della Luna e il suo sforzo è stato ripagato dal fatto che due oggetti lunari sulla faccia rivolta a noi, un cratere e una valle, portano il suo nome.
Questo personaggio ha lasciato anche qualcosa di scritto e purtroppo non sono mai riuscito a vedere, a consultare le sue opere che le stesse librerie antiquarie considerano rare. I libri che ha scritto il nostro Rheyta sostanzialmente sono due. Uno di carattere astronomico dove racconta le sue osservazioni, soprattutto quelle di Giove, è un libro estremamente tecnico. L'altro Oculos enoch Elie invece è la sua summa, la sua opera fondamentale. Può sembrare strano che nel titolo di un libro di astronomia compaiono i nomi di due personaggi biblici, Enoch e Elia: qualcuno ha voluto vedere in questi due nomi i due tubi del binocolo che avrebbe inventato ma soprattutto si tratta di personaggi che rapiti in cielo sono, poi, ritornati sulla Terra per combattere l'Anticristo. Si va a finire inevitabilmente sul rapporto scienza e fede. Rheyta era abbastanza moderno, era convinto che scienza e fede potessero andare d'accordo anzi il compito dell'astronomo era di allargare continuamente le conoscenze per approfondire ancora di più la fede, quindi non c'era nessuna controindicazione nell'esercitare la professione dell'astronomo. Bisogna sempre considerare i tempi che erano tempi non facili soprattutto per questo tipo di discorsi. All'interno di questi suoi libri emerge la sua concezione cosmologica; e qui si mostra largamente furbo quando si tratta di indicare a tutti le sue convinzioni. Copernico lo attirava molto ma abbracciarne la teoria voleva dire schierarsi contro al Chiesa e il caso di Galileo era troppo recente. Del resto schierandosi a favore di Tolomeo sarebbe stato tranquillo nei confronti della Chiesa ma a livello di comunità scientifica europea ci avrebbe rimesso, avrebbe segnato un passo indietro. Cercò allora una soluzione di compromesso. Tyco aveva proposto un modello cosmologico a metà strada fra Tolomeo e Copernico: la Terra al centro, il Sole gira attorno alla Terra e i pianeti girano attorno al Sole. Rheyta ha accettato questo tipo di cosmologia dimostrandosi molto abile a barcamenarsi in ambienti moto pericolosi.
Restando nel campo dell'astronomia questo cappuccino è stato uno dei primi ad accorgersi che le stelle non sono fisse, inoltre sembra anche costruisse anche dei microscopi negli ultimi anni della vita. Il suo primo libro uscito nel 1643 dove racconta e descrive le sue osservazione di Giove annuncia la scoperta altri satelliti. Fu un annuncio un po' troppo frettoloso; per ingraziarsi il papa li aveva già chiamati astri Urbano Ottavi come Galileo aveva chiamati i suoi Medicei: in realtà sembra fossero alcune stelle della costellazione dell'Acquario. Nei testi che parlano di Rheyta la storia, impietosa, registra questo suo errore. Si vede che a Ravenna è stato ospitato, negli ultimi anni della sua vita, un personaggio che ha costruito molto e rappresenta forse uno dei primi ad avere inaugurato il discorso delle tecnologie. In fondo si sa benissimo che senza uno sviluppo della tecnologia non si avrebbe uno sviluppo della scienza. Pensiamo a cosa sarebbe oggi la scienza se avesse avuto a disposizione solamente gli strumenti di Galileo: avrebbe fatto sicuramente molto poco.
Sempre per tornare anche in tema di Planetari, Rheyta, raccontano le sue biografie, si divertiva a costruire dei congegni meccanici (tipo Tellurium) cioè degli strumenti con i quali poi spiegava e illustrava i movimenti della Terra e dei pianeti attorno al Sole. Anche in questo senso Rheyta lo possiamo considerare fra i precursori, fra quelle persone che hanno studiato il problema di come divulgare la scienza, e in particolare come divulgare l'astronomia attraverso strumenti che riproducessero, in qualche modo, i movimenti e i meccanismi della volta celeste. Si noti che non solo Gerberto, ma anche questo Rheyta è passato attraverso questa esperienza di costruire oggetti meccanici per studiare e per rappresentare la volta celeste.
Tanto per aprire una breve parentesi, ricercando i precursori dei Planetari dovremmo andare ancora molto più indietro: addirittura forse il primo geniale costruttore è stato il matematico Archimede. Così si racconta, e le fonti sembrano attendibili. Ovidio nei Fasti racconta di globi di vetro costruiti da Archimede supportati da strutture di legno e su questi globi erano segnate le stelle delle costellazioni e quei riferimenti utili per la geografia astronomica. C'è anche una poesia di Claudiano proprio dedicata alla sfera di Archimede dove descrive tutte le meraviglie di questo gioiellino della meccanica, talmente bello che provoca l'invidia di Giove. Immagina Giove che dall'alto del suo Olimpo guarda le diavolerie di questo meccanico terrestre che ha osato rapire i segreti del cielo per poterli in questo globo. Potrebbe essere l'atto di nascita dei Planetari, documentato nei versi latini sia di Ovidio, sia di Claudiano. C'è un altro personaggio che non poteva non fare queste cose: Leonardo da Vinci. Costui, meccanico di corte di Ludovico il Moro, aveva costruito una macchina chiamata Paradiso che dalla descrizione assomiglia moltissimo a uno dei primi planetari. In occasione dei festeggiamenti di un compleanno, Leonardo costruì un cielo artificiale dove le stelle erano dentro lumini di vetro; era tutto meccanico e girevole, e poteva essere sistemato per riportare la configurazione della giornata di nascita della principessa festeggiata. Questo per dire che i precursori vanno ricercati molto all'indietro.
Siamo arrivati alla conclusione di questa ricerca con un personaggio, un vero pezzo da novanta nella storia dell'astronomia in Romagna, il matematico di Lugo, Gregorio Ricci Curbastro. Sono ancora molti che non conoscono il suo operato. Morto nel 1925, è un matematico dell'ottocento, vissuto a cavallo dei due secoli. Nel 1975 è caduto il cinquantenario della morte: chi mi conosce sa che vado per anniversari perché è l'unico modo per parlare di certi argomenti. Chi fa divulgazione, chi scrive sui giornali deve inventarsi le scuse per scrivere di qualcosa e gli anniversari delle nascite e delle morti sono perfetti allo scopo. Nel cinquantenario della morte di Ricci Curbastro scrissi un pezzo sul Resto del Carlino che suscitò una grande polemica perché a Lugo si erano dimenticati e lo recuperarono ... l'anno dopo.
Ricci Curbastro è stato uno dei migliori
matematici della nostra scuola italiana di matematica. Il suo
nome è legato al calcolo differenziale assoluto che è servito
alla formulazione matematica della teoria della relatività
generale di Einstein. Possiamo dire tranquillamente, senza timore
di essere smentiti, che la teoria della relatività generale,
oggi unico strumento in mano agli scienziati, agli astronomi per
indagare l'Universo su grande scala ha delle radici nella nostra
realtà romagnola perché il formalismo matematico della teoria
è stato offerto da questo matematico di Lugo: Gregorio Ricci
Curbastro.
Nella sua casa di Lugo in corso Garibaldi 41, nel centenario
della nascita misero un lapide che dice: «Nato in questa
casa il 12 gennaio 1853 Gregorio Ricci Curbastro maestro insigne
matematico sommo. Diede alla scienza il calcolo differenziale
assoluto strumento indispensabile per la teoria della relatività
generale nuova visione dell'universo».
Tanta gente non ci crede come se in Romagna dovessimo solamente ballare il liscio e mangiare la piadina. Per carità il liscio a me non piace, la piadina però si, e anche il sangiovese, ma non per questo non è detto che la nostra terra abbia offerto personaggi di una certa caratura. E questo, sicuramente, è uno dei più grandi personaggi di cui la Romagna si può e si deve senz'altro vantare. Ora è chiaro che entrare nel merito del discorso, per dire a cosa serve questa matematica e perché è confluita nella teoria della relatività generale, è molto complicato, molto difficile perché richiede la conoscenza di concetti di livello universitario. Penso, però, sia possibile raccontare in maniera molto divulgativa quale è stato il campo di applicazione della matematica di Ricci Curbastro. Voi sapete che col nome di teoria della relatività noi facciamo riferimento a due teorie. Einstein ne elaborò due edizioni successive: la prima nel 1905, relatività cosiddetta ristretta, e l'altra nel 1915 o 1916, relatività generale che non è altro che una nuova formulazione della teoria della gravitazione universale.
Fino al 1915 i fenomeni astronomici venivano interpretati in termini di gravitazione e si faceva riferimento alla teoria di Newton. A un certo punto questa teoria non va più bene ma necessita una teoria più ampia e la relatività generale risponde a questa esigenza. Questo non vuol dire che la relatività generale sia venuta a soppiantare tutto il discorso di Newton perché nelle equazioni della relatività generale nel caso particolare di velocità piccole ritroviamo la teoria di Newton.
La teoria di Newton diventa un caso particolare della teoria della relatività generale: questo è importante perché dà un senso di continuità al discorso e soprattutto elimina quel modo di pensare della gente per cui una nuova teoria soppianta quella precedente. Non sempre è vero, c'è anche una certa continuità nel discorso.
Questa è l'occasione per definire, per
affrontare un pochino i concetti che stanno dietro alla teoria
della relatività. Molti sono convinti, ancora oggi, e disposti a
sottoscriverlo che la teoria della relatività
sia nata per dire: «Tutto è relativo». Affermare
queste cose è come dire che Giordano Bruno è morto di
infiammazione: è anche vero ma è infiammazione di altro tipo!
Non è vero niente, anzi è tutto alla rovescio. La teoria
afferma tutto il contrario: ci si può chiedere come relatività
e assoluto convivano in uno stesso discorso. È possibile perché
Einstein si è preoccupato di vedere all'interno di fenomeni
quello che poteva restare invariato. Questo è il discorso
fondamentale della teoria della relatività: lascia libertà al
punto di vista personale e soggettivo. Per fare un esempio,
banalizziamo le cose: sappiamo che uno stesso fenomeno visto da
un personaggio e visto da un'altro può cambiare di molto. Il
classico esempio riportato in tutto i libri è il famoso treno
che passa, su di esso c'è una persona che compie una determinata
operazione, batte due tasti sulla tastiera di un computer. Per
chi sta sul treno la battitura del primo e del secondo tasto
avvengono nello stesso luogo. Chi guarda il treno dal di fuori
vede il treno che gli passa davanti, nota che il primo tasto è
stato premuto in un punto e il secondo in un altro: i due
avvenimenti sono distanziati spazialmente. Esiste quindi un punto
di vista relativo nell'osservare il fenomeno. Ora supponiamo di
avere due osservatori che osservano lo stesso fenomeno ed
effettuano delle misure spaziali e delle misure temporali:
rilevano lo spazio e il tempo. Siccome questi due osservatori non
sono nelle stesse condizioni, non sono nello stesso stato di moto
troveranno dei numeri discordanti, troveranno delle misure che
non vanno d'accordo. Quando le confronteranno non si metteranno
mai d'accordo convinti, ognuno, di aver misurato il giusto.
Chi ha ragione?
Tutti e due: dal loro punto di vista han ragione sia l'uno che
l'altro.
Ora la teoria della relatività che cosa afferma?
Dice che non bisogna soffermarsi sul punto di vista
dell'osservatore ma bisogna andare a vedere quello che permane al
di là della relatività dei fenomeni. In questo caso è una
forma matematica detta intervallo spazio temporale, è una forma
quadratica che assomiglia molto al teorema di Pitagora, ma non lo
è. Nel caso di poco fa se uno ha trovato un valore di spazio e
un valore di tempo, il numero 3 e il numero 4 e l'altro,
osservando lo stesso fenomeno, trova che lo spazio è 4 e il
tempo è 3. Valori completamente diversi. Nella formula di
Einstein inserendo i valori si ottiene 25 da tutte e due le
parti.
Il relativo è la premessa del discorso, ma la
conclusione è un assoluto. La teoria della relatività non è la
teoria del relativismo ma una teoria dell'assoluto perché va a
vedere quali sono le cose che sono comuni a tutti gli
osservatori. Quindi ha significato fisico solamente tutto quello
che permane e che rimane invariante pur nel mare magnum di tutti
i diversi punti di vista. Questo vale la pena di sottolinearlo
perché c'è tanta gente che ancora oggi crede che la teoria
della relatività dica che tutto è relativo mentre non è vero
niente, anche perché il punto di vista relativo l'aveva già
detto Galileo e non c'era bisogno di Einstein per ripetere il
concetto.
Quello che non si sapeva era che dietro a tutte queste
relatività c'era qualche cosa che restava invariato, invariante.
Dietro a tutto questo discorso esposto in maniera molto semplificata, molto banale c'è una matematica estremamente complessa, estremamente complicata che è la matematica del nostro Ricci Curbastro. Oggi come oggi questo calcolo differenziale assoluto, termine che compare anche nel titolo del calcolo proprio per significarne l'aspetto fondamentale, è conosciuto come calcolo tensoriale studiato in determinati corsi di laurea. Viene ricordato, anche, come il calcolo di Levi Civita che era poi l'allievo di Ricci Curbastro. Come succede in queste cose gli allievi diventano colleghi, e poi c'è da dire che Tullio Levi Civita era un tipo che ci sapeva molto più fare sul piano della vendita della propria immagine per cui oggi è molto più conosciuto negli ambienti matematici del maestro. Queste cose me le raccontava una nipote di Ricci Curbastro rammaricata e mi mandò alcune lettere in cui dimostrava che il calcolo era del nonno. Dobbiamo essere orgogliosi di avere in Romagna un personaggio della levatura di Ricci Curbastro. Pensate, Einstein a un certo momento lanciò un appello disperato. Si era trovato a un certo punto dell'elaborazione della sua teoria e si era accorto che non aveva più la matematica sufficiente per tradurre in simboli l'elaborato del suo pensiero e si rivolse a un amico, il matematico Grossmann, col quale aveva affrontato gli anni di studio che lo mise in contatto con il lavoro di Ricci. Quando si trovò di fronte a questo algoritmo matematico Einstein si rese conto che era ciò che stava cercando da tanto tempo. Esiste anche una lettera autografa in cui ringrazia il matematico per lo strumento offertogli. È interessante notare come molto spesso la matematica proceda per strade sue proprie.
Ricci Curbastro aveva pensato a questo calcolo
senza immaginare alle applicazioni pratiche. Il matematico lavora
astrattamente senza preoccuparsi delle applicazioni pratiche; in
fondo il lavoro di Ricci Curbastro si può paragonarlo a quello
del greco Apollonio. Possiamo accumunare i lavori di questi due
personaggi. Difatti mentre la teoria delle coniche fu utilizzata
da Keplero, moltissimi secoli dopo, per eliminare tutto quel
castello complicato che erano gli epicicli di Tolomeo per
sostituirli con quella figura semplice ed elegante che è
l'ellisse così lo stesso accadde a Ricci Curbastro.
Lavorò nel suo studio attorno a questo calcolo matematico senza
immaginare che sarebbe servito per dar voce a una delle teorie
più grandi mai elaborate da mente umana. Lui fu più fortunato
del greco perché riuscì a vedere i frutti della sua fatica e
del suo calcolo mentre fra la teoria di Apollonio e la sua
applicazione passarono parecchi secoli.
Partito da Boezio e Teodorico, passato da Gerberto di Aurillac, poi da Rheyta, concludo con Ricci Curbastro cercando, così, di utilizzare tutti i segmenti e i passaggi obbligati non solo della storia dell'astronomia ma di tutte le scienze esatte.
In fondo si parte sempre da un inizio che deve convivere con la magia, con i riti, con l'occulto, con qualcosa di strano poi, via via, si passa al momento dell'applicazione di dati come può essere la figura di Gerberto che cercò di tradurre nei suoi strumenti i concetti matematici e astronomici, poi si passa alla tecnologia come Rheyta e si termina con la matematica di Ricci Curbastro che entra nell'Olimpo dell'astronomia per esser riuscito a dare quegli strumenti necessari per poter tradurre la teoria della relatività generale che, oggi come oggi, è la grande teoria di cui dispongono gli astronomi per poter indagare il cielo su grande scala.
- conferenza del 5 febbraio 1993 -
Torna alla Home Page di Testi & Trattati