di Annalisa Ronchi
Tra ottobre e febbraio è possibile osservare una costellazione poco appariscente composta prevalentemente da tre stelle, la costellazione dell’Ariete.
Per individuarla basta tracciare una linea immaginaria che parte da Scheat del Pegaso, passi attraverso Alpheratz di Andromeda, per arrivare finalmente alle stelle più luminose dell’Ariete che sono: Hamal, a (alfa), che brilla di una luce gialla, Sheratan, b (beta), una stella bianca e Mesarthim, g gamma), la quale ad occhio nudo appare come una stella singola, ma già con un piccolo telescopio si rivela formata da due componenti diverse.
Oppure, più semplicemente: guardando la W di Cassiopea considerare le stelle che formano il lato più a destra e prolungarlo verso il basso. La linea del prolungamento passerà sopra una stella abbastanza luminosa (la prima di una fila di tre che fanno parte della costellazione di Andromeda), fiancheggerà il Triangolo e giungerà direttamente sulla schiena dell'Ariete
Nonostante sia un gruppo stellare veramente poco spettacolare, Ariete è forse il segno zodiacale più famoso, in quanto il Sole entrava fra queste stelle all’equinozio di primavera nei duemila anni prima della nascita di Cristo.
Precedentemente, cioè dal 4000 al 2000 avanti Cristo, era stato il Toro il segno dell’equinozio, ma il lento spostamento dovuto alla precessione degli equinozi ha fatto spostare il meridiano verso la zona dell’Ariete che divenne, insieme al Capricorno, alla Bilancia e al Cancro, uno dei quattro segni cardinali.
La successione dell’Ariete al Toro è entrata nelle leggende e nei miti di tutti i popoli.
Emblematica è l’allegoria biblica di Mosé che sale sul monte Sinai (monte della Luna) per ricevere le nuove leggi della futura Israele e ne discende con in mano i comandamenti e sulla fronte due giovani corna di Ariete, quindi sorprende gli ebrei intenti ad adorare il Toro dorato, simbolo del vecchio cielo, e, adirato, fa distruggere l’idolo.
A differenza della tradizione giudaica e siro-palestinese (secondo la quale è raffigurato con la barba) nella sua prima interpretazione cristiana, in analogia con Cristo, Mosé assume l’aspetto di un giovane imberbe, talvolta con il capo coronato dal nimbo, e con una verga magica in mano; immagine questa ripetuta anche nella narrazione di episodi più tardi della sua vita, quando il profeta, che vive centoventi anni, sarà in età molto avanzata.
A partire dal secolo XI comincia altrimenti a diffondersi nella forma narrativa il tipo del vecchio canuto, immediatamente identificabile con Mosè attraverso i suoi tre principali attributi: la lunga barba bipartita, le tavole della Legge che (spesso) tiene tra le mani, e le corna.
Mentre i primi due attributi stanno a simboleggiare l’autorevolezza (la barba, in segno anche dell’avanzata età) e l’apice della parabola della sua missione (le tavole, ovvero la Legge decretata da Dio, oggetto tangibile dell’investitura divina), quello delle corna è un attributo che ha origini e derivazione più complesse.
« Cumque descenderet Moyses de Monte Sinai, tenebat duas tabulas testimonii, et i gnorabat quoad cornuta esset facies sua ex consortio semonis Domini ».
Con queste parole san Girolamo, nella traduzione latina del testo ebraico del Vecchio Testamento, interpretava il passo che descrive la luminosità del volto di Mosè disceso dal Sinai con le tavole della legge, dopo l’avvenuto incontro con Iahwhè.
Nel testo (scritto tra il 382 e il 404 dopo Cristo conosciuto e diffuso nel Medioevo come Vulgata) l’autore interpretava la parola ebraica qeren (dal duplice significato di "corna" e di " raggi di luce") nella sua prima accezione, facendo sì che i raggi di luce si traducessero in "corna d’oro". A tale interpretazione è comunemente attribuita l’iconografia del Mosè cornuto.
Del resto, a uomini e teologi di età medioevale la presenza delle corna non doveva sembrare molto strana: in antico le corna erano infatti usate come simbolo di dignità, di onore e di potere. Dalle Indie orientali al Medio Oriente, dalla penisola scandinava all’Egitto, le corna rappresentavano gli animali più cari agli dei, ed erano spesso riproposte nella rappresentazione delle stesse divinità.
Così il faraone (che è incarnazione terrena del divino) viene rappresentato con le corna, come Iside o Ra nella loro interpretazione animale e celeste, in base alla quale Iside appare come disco solare munito di corna; anche Alessandro Magno, discendente di Ammone, presenta il medesimo attributo.
In Mesopotamia il sacerdote che rappresenta dio, ha un cappello cornuto; analoghi copricapo sono propri dei vichinghi ed assimilabili alle tiare vescovili. E ancora, alle corna sono attribuiti poteri magici ed apotropaici tanto nei totem e nei feticci arcaici, quanto nei moderni amuleti.
Sebbene il testo della Vulgata venga accettato dalla Chiesa Cristiana d’Occidente tra i secoli VIII e IX, nell’arte cristiana l’immagine di forza e di vittoria emanata dal Mosè cornuto comincia a diffondersi solo a partire dal secolo XI.
La prima rappresentazione di tale tipo iconografico compare nel manoscritto Aelfric Paraphrase conservato nel British Museum di Londra (Cotton Claudius B. IV), ed è moltiplicata nel gran numero di episodi che narrano la vita del profeta.
I Sumeri chiamavano il Sole Subat, l’Antica Pecora mentre il nome collettivo dato ai pianeti era le stelle dell’Antica Pecora o anche "Gregge Celeste".
Nella tavola delle trenta Stelle, l’Ariete appare con il nome di Gam, la Scimitarra, che si estendeva da Okda dei pesci fino a Hamal nell’Ariete che con le sue stelle più luminose ne disegnavano la lama; questa era l’arma che proteggeva il regno contro i Sette Spiriti Diabolici o Spiriti della Tempesta.
Altro nome mesopotamico per questa costellazione fu Rubu, o anche I-ku-u o semplicemente Ku, tutti nomi che significano principe o Condottiero, forse nel senso di condottiero del gregge celeste, titolo che fu assegnato anche a Capella dell’Auriga.
Erano stati gli egiziani i fautori e creatori del culto dell’Ariete, segno molto importante per loro perché culminava quando la stella Sirio sorgeva determinando il tempo dell’alluvione benefica del Nilo.
Indicativo è il viale trionfale a Karnak, formato da due ali di decine e decine di sfingi di granito con la testa di Ariete, che conduceva al tempio di Amon-ra, il supremo dio solare del pantheon egizio, raffigurato con corna di Ariete su una barca processionale detta Userhat.
Le preparazioni per questa grande festa cominciavano prima della luna piena successiva all’equinozio di primavera e, nel quattordicesimo giorno di quella luna, tutto l’Egitto gioiva per il dominio del Sole nel segno dell’Ariete.
Accompagnata da preti, servi che portavano incenso fumante, musicisti, danzatori, acrobati, soldati e probabilmente da abitanti di tebe ispirati, la splendida barca Userhat (che che significa qualcosa come "la potente prua") con il reliquario e la statua di Amon era trasportata dal tempio di Karnak su una strada rialzata fino alle rive del Nilo. Era accompagnata da imbarcazioni per gli altri due dei della triade di Tebe, Mut e Khons.
Il culto dell’Ariete si diffuse dall’Egitto a tutta la sfera mediterranea, dove gradualmente fu abbandonato il precedente culto del Toro a favore del nuovo ciclo stellare.
I greci furono geniali nell’introdurre l’Ariete nella loro cultura, ovviamente utilizzarono la mitologia ma senza attribuire nuove amanti e nuovi figli illegittimi a Zeus, anzi...
La vicenda ebbe inizio quando, fra i pretendenti di Teofane, figlia del re di Tracia Bisalte, apparve Poseidone, che rapì la fanciulla e la nascose in un'isola deserta.
Gli altri pretendenti alla mano della fanciulla si misero, allora, alla sua ricerca, ma Poseidone la trasformò in pecora e, assunto l'aspetto di un montone, si unì a lei e generò l'Ariete dal vello d'oro.
Questo può essere considerato il prologo di ciò che segue.
Issione, approfittando dell’ospitalità di Zeus, si era invaghito di sua moglie Hera.
Accortosi di questo, il re degli dei creò una nuvola (chiamata Nefele o Nubes dai latini) a immagine e somiglianza di Hera, con la quale Issione si accoppiò generando i primi centauri.
Issione fu condannato a girare in eterno legato ad una ruota infuocata che rappresenta il cerchio dell’eclittica dove si muove il Sole. La povera Nefele rimase sola e triste a vagare per l’Olimpo fino a che Hera, mossa da compassione, la fece sposare con Atamante, fratello del famoso Sisifo e re di Beozia. Da questa unione nacquero Frisso ed Elle.
Atamante non fu fedele a Nefele e dopo qualche tempo divenne l’amante di Ino, che gli diede altri figli e, da perfetta matrigna, lo indusse ad odiare Frisso ed Elle sino al punto che li condannò a morire in sacrificio.
Ma Hera vegliava sui suoi protetti e ordinò a Ermes di inviare un Ariete in soccorso dei giovani. Fu così che, prima che il sacrificio si compisse, un Ariete ricoperto da una pelliccia d’oro discese dal cielo, si caricò i giovani sul dorso e volò via dirigendosi verso la Colchide, dove, in una stalla, Elios, il Sole, chiudeva i suoi carri durante la notte.
Stordita dall’altezza e colta da vertigini, la giovane Elle perse la presa e precipitò in quel pezzo di mare che separa l’Europa dall’Asia che, da allora, fu chiamato Ellesponto.
Soltanto Frisso raggiunse la Colchide, situata nella zona orientale del Mar Nero e regno del figlio di Elios, Eete. Appena giunto, il giovane sacrificò l’Ariete a Zeus Liberatore e ne appese il vello in un bosco sacro.
Nel mito di Atamante, Nefele e Frisso ricorre l’antico motivo del sacrificio annuale del re e del suo paredro, un fanciullo che andava all’altare dei sacrifici indossando una pelle di Ariete, sostituito più tardi dall’Ariete stesso.
Questo rito era celebrato dai pastori sulle montagne all’inizio della primavera, durante la festa del nuovo anno.
Nefele era la nuova apportatrice di pioggia.
Elle era l’antica dea della Luna, la cui morte per annegamento rappresenta il declino del culto lunare in favore del culto solare di Zeus, il quale era spesso identificato con l’Ariete col nome di Zeus-Amon.
Il Vello d’Oro ora si trova quindi nel sacro bosco di Ares, appeso ad una quercia sorvegliato notte e giorno da un drago che non dorme mai, ed è diventato così famoso da poterlo paragonare al Santo Graal e infatti, appena si presentò un pretesto per conquistarlo, la migliore gioventù greca partì in uno dei viaggi più famosi dell’antichità, probabilmente secondo per fama solo al viaggio di Ulisse.
Un figlio di Poseidone, Pelia, si era impadronito del trono di Esone dopo averlo imprigionato nel palazzo insieme alla moglie Polimela.
Pelia aveva dato ordine che se Polimela fosse rimasta incinta, il bimbo che sarebbe nato avrebbe dovuto essere subito ucciso perché gli era stato predetto da un oracolo che egli sarebbe stato ucciso da un discendente di Esone. Dopo un certo tempo Polimela diede alla luce un bimbo di nome Diomede. Per salvarlo dalla morte, lo addormentò con un’erba sedativa e fece piangere le sue ancelle sul corpo inanimato. Il fanciullo fu portato sul monte Pelio, dove fu soccorso e allevato dal centauro Chirone e crebbe con il nome di Giasone.
Passati molti anni, Pelia e Giasone ovviamente si incontrarono. Il giovane rivendicò il trono che gli spettava e Pelia, per tentare di salvarsi dal destino fatale, accettò a patto che le spoglie dell’ormai morto ma mai sepolto Frisso fossero riportate in patria insieme al Vello d’Oro.
Giasone accettò prontamente, spedì araldi in tutta la Grecia per convocare volontari per la pericolosa impresa e chiese ad Argo di costruirgli una nave a cinquanta remi.
I volontari non si fecero aspettare molto e presto nel porto di Pagase arrivarono il figlio di Borea, Calaide, la vergine cacciatrice Atalanta, Castore e Polluce, Eracle, i figli di Dioniso, Fano e Stafilo, Orfeo con la sua lira, Telamonio e molti, molti altri. Sono gli Argonauti.
Le Argonautiche
La nave parte verso l'isola di Lemno, sospinta da un vento favorevole.
Quando gli Argonauti arrivano all’isola, le donne si armano, temendo un'invasione di traci. Ma una volta sentito l'araldo di Giasone, si mostrano ospitali accogliendoli tutti nell'isola, solo Eracle e pochi altri rifiutano di sbarcare.
Il soggiorno è talmente felice da far dimenticare loro il motivo del viaggio ed Eracle li deve richiamare alla ragione. Alla fine le donne di Lemno, acconsentono alla loro partenza.
Gli Argonauti attraversano senza fatica l'Elleseponto e il Propontide (il Mar di Marmara), approdando nel paese dei dolioni, nell'isola di Cizico.
Il re li accoglie e li invita a gettare l'ancora nel porto di Cito.
Cizico si è appena sposato ed è preoccupato da una profezia che gli indica di non usare mai la violenza nei confronti di nobili navigatori che approdassero alla sua isola.
Li accoglie quindi con benevolenza, organizzando per loro un banchetto. Risponde a tutte le loro domande sul Propontide, ma confessa di non sapere niente sui paesi che si estendo ad est, al di la' del mare.
Mentre si preparano per la partenza, dalle montagne scendono dei mostri con sei braccia, che attaccano la nave e che cercano di impedirne la partenza, accatastando grandi rocce all'imbocco del porto.
Gli Argonauti sconfiggono i mostri e ben presto possono ripartire. Venti contrari impediscono di proseguire e così gli Argonauti sono costretti a tornare all'isola, sbarcandovi di notte.
Re Cizico crede di essere stato attaccato da pirati e non riconoscendo gli ospiti del giorno prima, prende le armi e alla testa dei suoi soldati attacca gli invasori, rimanendo ucciso nel corso della battaglia, compiendo la profezia dell'oracolo.
Gli Argonauti rimangono nell'isola per dodici giorni, facendo celebrare con solennità le esequie del re e attendendo venti favorevoli.
Mopso vede un martin pescatore svolazzare intorno alla nave, l'uccello rimane per pochi istanti sulla testa di Giasone e quindi si posa a prua. Mopso, che ne capisce il linguaggio, ascolta il cinguettio dell'uccello.
Mopso racconta a Giasone che occorre un sacrificio per la dea Rea, madre di Zeus e sovrana della terra, dei venti e dei mari.
Gli Argonauti ritornano in Tracia, dove si trova il monte Didimo, con il santuario consacrato alla dea. Salendo verso il tempio, Argo scorge un tralcio di vite secco e, da provetto falegname, lo utilizza per fare una statua della dea.
Il sacrificio viene effettuato e la statua deposta nel santuario: Rea dimostra la sua soddisfazione facendo sgorgare una fonte dal fianco della montagna, a cui verra' dato il nome di "fonte di Giasone".
Tornati a Cizico, i venti sono cambiati e possono riprendere il viaggio immediatamente.
Arrivati alla foce del Rindaco, il remo di Eracle si spezza, così il forte eroe scende a terra per cercare un albero con cui farne uno nuovo, mentre il suo scudiero Ila, va alla ricerca di una sorgente di acqua dolce.
Entrambi trovano quello che cercano: Eracle un pino e Ila una fonte nei boschi di Pegea.
La ninfa della fonte trova il giovane molto bello, e quanto Ila si china per raccogliere l'acqua, la ninfa lo trascina nel suo regno.
Il giorno successivo si alza una brezza e Tifi, pilota della nave, sollecita i compagni ad imbarcarsi.
La nave è già in alto mare, quando il gruppo si accorge della mancanza a bordo di Eracle e Ila. Telamone accusa Giasone e Tifi di aver abbandonato volontariamente i due, per gelosia nei confronti di Eracle.
Glauco, portavoce di Poseidone, esce dai flutti e annuncia che Eracle sarebbe rimasto a terra alla ricerca di Ila e che quindi la nave poteva continuare sulla sua rotta.
L'Argo arriva nel paese dei berici in Bitinia.
Polluce entra in contesa con il re Amico e l'uccide, ne segue una battaglia tra gli Argonauti e i berici che, sconfitti, fuggono.
Gli Argonauti si impadroniscono del bottino ed ascoltano Orfeo cantare le lodi di Polluce.
Il giorno successivo si inoltrano nel Bosforo, attraversandolo senza problemi grazie all’abilità di Tifi.
Fanno scalo nel regno di Fineo, il re cieco che regna sulla riva occidentale del Bosforo.
Fineo ha il dono della profezia, ma ha avuto l'impudenza di rivelare i segreti degli dei e Zeus l'ha punito.
Ogni volta che si appresta a mangiare, due Arpie si precipitano sul cibo, glielo strappano di mano, insudiciandolo: il re sta così morendo di fame.
Fineo spiega agli Argonauti che potrà essere liberato da questa maledizione dai figli del vento di settentrione e chiede aiuto a Zete e Calais. I figli di Borea cacciano le Arpie, permettendo al re di nutrirsi.
L'indovino svela loro i pericoli che li minacciano e li consiglia di portarsi dietro una colomba, per poter attraversare le Simplegadi, scogli tra i quali le navi vanno a sfracellarsi.
Seguendo il volo della colomba, la nave riesce a superare gli scogli, grazie anche all’abilità di Tifi e alla vigilanza di Atena.
L'Argo prosegue nel Mar Nero, lungo la rotta indicata da Fineo, arrivando all'isola di Tinia.
Qui incontrano il dio Apollo in viaggio nel paese degli iperborei. Gli Argonauti gli costruiscono un tempio ed Orfeo canta un inno in suo onore.
Riprendono quindi il viaggio, arrivando al paese dei mariandini, dove li accoglie il re Lico. Il re ringrazia gli Argonauti, che lo hanno liberato dalle continue irruzioni nel suo paese da parte di Amico.
La felicità di questi momenti è offuscata dalla morte improvvisa di due Argonauti: Idmone, ucciso da un cinghiale, e Tifi, colpito da una malattia fulminante.
Anceo, sostituisce Tifi al timone, e l'Argo riparte alla volta di Sinope, dove si uniranno a loro tre nuovi compagni: i tre figli di Deimaco, che avevano preso parte alla spedizione di Eracle con le amazzoni ma che non furono in grado di tornare con lui.
Proseguendo il viaggio arrivano ad Aria, l'isola di Ares, dove gli avvoltoi, gli uccelli del dio con le piume di bronzo, assalgono gli Argonauti.
Usciti da questa avventura, hanno appena il tempo di piantare le tende, che si scatena una violenta tempesta.
Quattro naufraghi vengono gettati dalle onde sulla spiaggia e vengono trovati e subito soccorsi da Giasone e dai suoi amici: sono Argo, Frontide, Melante e Citissoro (figli di Frisso e Calciope).
Essi stavano tornando a Orcomeno, patria del loro padre, appena morto.
I quattro, seppure esitanti, decidono di unirsi al gruppo e di affrontare Eete, il re della Colchide.
Due giorni dopo raggiungono la Colchide, chiudono le vele e al crepuscolo risalgono a remi il fiume Fasi: a destra si estende il bosco sacro di Ares, mentre a sinistra si trova la città di Eea e i monti del Caucaso.
La genealogia della casa di Eete è particolarmente interessante per la quantità di personaggi astronomici coinvolti. Nefele era la manifestazione meteorologica di Hera, l’antica Grande Madre. Frisso aveva cavalcato l’Ariete celeste verso quella terra dove affondavano le antiche radici dei miti antichi, basti pensare a Prometeo. Eete era figlio del Sole, sposatosi in prime nozze con Asterodea ("quella della Via Stellata"), nome della dea Lunare dalla quale erano nate Calciope e Medea. Calciope aveva sposato Frisso, che però a questo punto è già morto. In seconde nozze Eete aveva sposato Idia, la saggia, che generò Absirto.
Secondo la versione di Diodoro Siculo, Eete, il Sole, si era invece sposato con Ecate, la Luna, e con lei aveva generato Medea e Circe, le grande sibille Lunari.
Questi personaggi antichi e lontani anche ai tempi dei greci, rappresentavano genealogie di dei estinti e rinati con altri nomi in altre regioni: probabilmente Medea e Circe divennero poi Demetra e Persefone.
Su consiglio di Argo, la nave viene ancorata fra le canne di una palude. Atena ed Hera che hanno seguito tutte le fasi del viaggio, si interrogano per trovare il modo di aiutare Giasone. Chiedono consiglio anche ad Afrodite, che invia Eros ad ispirare amore per Giasone in Medea, figlia del re Eete.
Giasone decide di presentarsi ad Eete, chiedendogli di consegnarli il Vello d'Oro, lo accompagnano i figli di Frisso con Telamone e Augia.
Gli Argonauti vengono accolti dal re Eete, da sua moglie Idia e dai figli Absirto e Calciope. Calciope corre incontro ai figli, piena di gioia nel vederli tornare.
A loro si unisce, in un secondo momento, la figlia minore del re, Medea. Appena vede Giasone, infiammata da Eros, se ne innamora.
Come portavoce è stato scelto Argo, figlio di Frisso, che spiega ad Eete la richiesta e le ragioni di Giasone.
Eete riluttante accetta solo a condizione che Giasone riesca a superare prove pericolosissime: nella piana di Ares, ci sono due tori mostruosi, con zoccoli di bronzo e che sbuffano fuoco dalle narici, Giasone dovrà aggiogarli ed attaccarli ad un aratro, quindi dovra' arare un campo e seminarvi dei denti di drago dai quali nasceranno degli uomini armati, che dovrà uccidere prima che si faccia notte.
Giasone accetta e Medea si ritira, tremando di paura al pensiero della dura prova che il suo amato dovrà affrontare.
Giasone ritorna sulla nave ed informa i suoi compagni della prova.
Argo (figlio di Frisso) lo informa che in suo aiuto potrebbe venire Medea, sacerdotessa di Ecate.
Argo ritorna al palazzo, Medea gli rivela che un sogno l'ha avvertita che il padre non ha intenzione di mantenere la parola. Allora Argo va dalla madre, che temendo per la vita dei figli, va da Medea e la trova disposta ad aiutare Giasone.
Medea si dirige al santuario di Ecate, mentre Giasone, accompagnato da Mopso, si fa condurre al tempio da Argo.
Nella pianura Giasone,camminando da solo, incontra Medea, anch'essa sola. La giovane gli suggerisce il sacrificio da offrire alla dea Ecate nella notte, gli consegna anche un balsamo da spalmarsi sul corpo prima di affrontare i tori che sbuffano fuoco (l’Unguento di Prometeo, ottenuto con il succo del fiore che era nato nelle valli del Caucaso dal sangue del fegato di Prometeo, il Croco di Corico, che ha una radice color sangue), infine gli chiede di non dimenticarsi di lei quando lascerà la Colchide.
Giasone le risponde che non la dimenticherà mai e che, se lei si unirà agli Argonauti alla loro partenza, lui la sposerà nel suo paese.
Con i consigli e la medicina di Medea, Giasone mise al giogo i tori, tracciò i solchi e seminò i denti di serpente, e da ogni zolla spuntarono germogli di bronzo e ferro affilato.
In breve il terreno arido fruttificò in elmetti e spade che andavano crescendo a vista d’occhio, generando scudi e armature, fino a che da ogni solco non prese forma un manipolo di guerrieri armati fino ai denti. Seguendo i consigli di Medea non impugnò né la lancia né la spada ma si limitò a gettare un grosso sasso tra di loro.
Il rumore che questo produsse atterrando fu subito coperto dalle grida dei guerrieri, che cercavano, voltandosi in ogni direzione, chi avesse generato quel frastuono. Quei guerrieri erano talmente assetati di sangue che si gettarono l’uno contro l’altro, combattendo così selvaggiamente che alcuni di loro non facevano in tempo a spuntare dal terreno che già erano morti. Quando il Sole tramontò, la terra aveva già riassorbito questi frutti generati da poche ore, e ciuffi d’erba cominciavano a spuntare sul mare di ossa.
Eete, indispettito da questo successo, si rifiutò di mantenere la sua parola, e segretamente si preparava ad assalire gli Argonauti e a distruggere la nave Argo.
Ma Medea condusse rapidamente Giasone al bosco di Ares, tagliò alcuni rami di ginepro, li immerse in un liquido magico, poi si avvicinò cantando magici arcani al drago dai cento occhi e girandogli attorno gli spruzzò addosso le gocce del liquido, e subito il mostro cadde addormentato.
Giasone si impossessa del Vello d'Oro quindi, insieme a Medea, velocemente tornò sulla Argo prima che le guardie di Eete li potessero raggiungere.
Gli Argonauti issano le vele, armati e pronti a fronteggiare i prossimi pericoli. Hera manda una brezza favorevole, che li fa ridiscendere verso il mare, con Giasone e Medea accanto al timoniere.
La nave è ormai lontana ed il re Eete ordina a tutte le imbarcazioni del suo regno che si lancino all'inseguimento della nave sulla quale si trova la figlia infedele.
L'indovino Fideo consiglia agli Argonauti di seguire una rotta diversa per tornare in Grecia.
Argo propone di seguire il fiume Istro (odierno Danubio) e poi, attraverso i suoi affluenti, arrivare al Mar Ionio ed effettuare il periplo della Grecia per arrivare a Iolco.
Giunti alla foce si accorgono che il fratello di Medea, Absirto,a capo della flotta di Eete, li ha preceduti, impedendogli di entrare nel Ponto Eusino (il Mar Nero).
Gli Argonauti cercano di parlamentare, Absirto riconosce il merito di Giasone ma Medea deve ritornare nella Colchide. Gli Argonauti propongono che Medea si ritiri nel santuario di Artemide affiché‚ la sua sorte venga discussa con imparzialità.
Medea, irritata, minaccia di dare fuoco alla nave se Giasone si azzarderà ad accettare queste condizioni. Niente al mondo la farà ritornare sui suoi passi e per nessun motivo al mondo lo abbandonerà.
Medea dichiara anche che provvederà personalmente ad Absirto, permettendo agli Argonauti di battere facilmente un esercito privo di capo: spaventato da questa violenza, Giasone acconsente.
Approfittando della tregua Medea dà appuntamento al fratello, il giovane accetta ma ad aspettarlo c’è Giasone, che lo uccide.
Ripartiti, ne dilaniano il corpo, gettando le membra una dopo l'altra in mare costringendo Eete a rallentare per raccogliere i resti del figlio: grazie a questo rivoltante stratagemma Giasone e Medea riescono a sfuggirgli.
In un’altra versione Absirto è un bimbetto che segue passo passo la sorella Medea. Quando la flotta del padre stava per raggiungere la nave Argo, Medea, ignorando i lamenti e le suppliche del ragazzo, lo uccise e ne smembrò il corpo gettandone i pezzi tra le onde.
La morte di Absirto chiede vendetta agli dei, l'Argo procede a forza di remi quando si sente la voce dell'oracolo di Zeus.
Dall'alto della polena dice che il sangue di Absirto macchia le mani di Giasone e Medea: se non si purificheranno nessuno di loro, Argonauti compresi, riuscirà a rimettere piede in Grecia.
Castore e Polluce invocano gli dei dell'Olimpo che scatenano un uragano che spingerà l'Argo sull'Eridano (odierno Po).
La nave segue poi il corso del Rodano per riguadagnare il Mediterraneo, rifugiandosi nell'isola di Eea lungo la costa orientale dell'Italia.
Questo è il regno della maga Circe, sorella di Eete e zia di Medea. La maga purifica Giasone e Medea ma si rifiuta di dar loro ospitalità.
Col cuore tremante, gli Argonauti risalgono a bordo e si preparano ad affrontare le sirene oltre ai terribili pericoli di Scilla e Cariddi.
Orfeo salva gli Argonauti dal canto delle sirene, traendo dalla sua lira una musica ancora più sinuosa della loro.
Nello stretto di Messina si trovava il vortice di Cariddi davanti al quale era posto uno scoglio temibile, sorvegliato dal mostro Scilla. I marinai che si trovavano in quel luogo spesso evitavano il primo e, credendo di essere in salvo, si facevano divorare dal secondo. Ma in loro aiuto, Hera, Teti e le Nereidi guidano la nave per farle attraversare lo stretto senza danni.
Gli Argonauti approdano all'isola di Corcira (Corfù), accolti calorosamente dal re Alcinoo. Non fanno in tempo a sbarcare, che anche un contingente di soldati della Colchide arriva all'isola, chiedendo ad Alcinoo di consegnare loro Medea, in caso di rifiuto distruggeranno Corcida.
Alcinoo temporeggia e Medea ricorda agli Argonauti i suoi servigi, quindi si reca dalla regina Arete, pregandola di intervenire in suo favore.
Alcinoo prende la decisione di rendere Medea ai colchidi in quanto non sposata a Giasone; Arete esce da palazzo e si reca al campo degli Argonauti, consigliando Giasone e Medea di sposarsi immediatamente.
I due si sposano, nonostante il loro desiderio di celebrare le nozze nel regno di Giasone.
Alcinoo rende noto ai colchici che Medea è sposa di Giasone e che quindi non può consegnarla a loro, anche se con frasi minacciose i colchici si arrendono alle ragioni del re, ma lo supplicano di lasciare che si stabiliscano nell'isola, sicuri che Eete li ucciderebbe se ritornassero in patria senza sua figlia.
Alcinoo accetta e gli Argonauti riprendono il mare.
Mentre stanno per doppiare il Peloponneso una tempesta li fa deviare dalla rotta. La tempesta dura nove giorni e li porta fino in Libia, sulla riva delle Sirti.
La nave si incaglia nella sabbia ed il mare, ritirandosi, li lascia in mezzo ad un arido deserto, senza speranze e senza forze.
In molti perdono la vita, tra gli altri Mopso.
Le ninfe della riva libica e le Esperidi vengono in aiuto degli eroi, dando loro cibo e raccontando ad essi di come Eracle abbia rubato i pomi d'oro del loro giardino.
Addolorati per la perdita dei compagni, gli Argonauti tirano la loro barca fino al mare, ma ignorano la loro posizione. Orfeo ricorda a Giasone che egli possiede uno dei tripodi dell'oracolo di Delfi consegnatoli da Apollo. Arrivati alla riva, gli Argonauti vi depongono il tripode: subito appare Tritone che indica loro la rotta da seguire.
Giasone gli offre il tripode sacro ed in suo onore sacrifica anche un montone, in ringraziamento, Tritone rimorchia l'Argo fino in mare aperto.
Giasone si dirige verso Creta dove li attendono altri pericoli.
Creta è custodita da Talo un gigante di bronzo creato da Efesto. La sua vita è legata ad un'unica vena che dalla testa arriva al tallone.
Il gigante cerca di staccare delle rocce da scagliare sull'Argo, ma in quel momento Medea gli manda visioni malefiche, che gli fanno perdere l'equilibrio, scalfendosi la caviglia: la vena si rompe ed il sangue comincia a sgorgare a fiotti. Talo si abbatte morto sulla riva.
Apollo concede loro una luce affinché non si perdano nella notte, conducendoli in mezzo alle iSole del Mare Egeo.
Giasone ed i suoi compagni ritornano infine a Iolco, con il Vello d'Oro.
Pelia li aveva dati per morti da tanto tempo, ed anzi in cuor suo non aveva mai pensato che potessero tornare vivi: era per questo in fondo che li aveva mandati. Ormai era molto vecchio, ma non voleva tener fede alla promessa fatta a Giasone.
Ma Medea aveva il potere di forgiare inganni più potenti dei suoi. Gli promise che grazie alle sue arti magiche gli avrebbe restituito la giovinezza.
Per dimostrare la veridicità dei suoi poteri fece una prova su un montone, che messo a bollire in un calderone con delle erbe miracolose, ritornò in vita sotto forma di un tenero agnello. Medea così convinse le figlie di Pelia,dei vantaggi che il loro vecchio padre avrebbe avuto da questo trattamento.
Così, alla fine, egli morì massacrato dalle mani delle sue stesse figlie.
Tra parentesi questo tipo di morte ricorda molto da vicino quella leggendaria del principe alchimista Raimondo di Sangro, Principe di Sansevero, ben noto nel settecento per essere in odore di magia nera, per le sue incredibili sculture (come "il Cristo velato ") e per le sue macabre Macchine anatomiche.
Giasone si stancò presto di una donna così crudele e si innamorò di Glauce, figlia di Creonte, re di Corinto.
Ma non fece i conti con il cuore di ferro di Medea che, dissimulando il suo odio, inviò a Glauce un ricco abito nuziale, ovviamente intriso di veleno, che appena indossato causò la morte dell’infelice sposa.
Quindi, impazzita di gelosia, Medea massacrò con le sue stesse mani i tre figlioletti e, quando Giasone furioso si preparava a vendicarsi la vide allontanarsi in cielo a bordo di un carro guidato da draghi.
Giasone, diventato, a causa di tutte le sventure che lo avevano colto, debole di mente, si uccise accanto ai corpi dei figlioletti e di Glauce.
Secondo un’altra versione egli che trovava conforto soltanto in lunghe passeggiate verso la sua amata nave Argo, compagna di tante avventure, venne ucciso dalla polena, staccatasi dalle travi ormai marce.
La conquista da parte di Giasone del Vello d’oro si riallaccia a quella tradizione di nuovi eroi solari che con l’aiuto, per amore o per forza, dell’antica dea riuscivano a conseguire la vittoria sui mostri dal profondo significato astronomico: Perseo uccide Medusa e Ceto quindi salva Andromeda, Bellerofonte conquistò la Chimera, Teseo sconfisse il Minotauro, Eracle si impossesso dei Pomi d’oro delle Esperidi.
L’Ariete celeste era venuto a sostituire il Toro Celeste (quello allegoricamente ucciso da Gilgamesh e Mitra) come simbolo di resurrezione della primavera e come novità sull’antico culto portò la cessazione dei sacrifici umani, molto diffusi nel Mediterraneo.
Fu così che Zeus (anche lui identificato con l’Ariete) uccise Licaone per punirlo del sacrificio di un bimbo, facendo successivamente venire il diluvio per lavare l’umanità dai suoi peccati e farla rinascere nel nuovo ordine.
Lo stesso simbolismo si ritrova nella sostituzione del figlio di Abramo con un Ariete portato dal cielo.
Igino nella sua Poetica Astronomica riporta le storie di Ermippo e di Leon sull’origine del segno dell’Ariete, e in ambedue il personaggio principale era Dioniso.
Nella prima si racconta che al tempo della campagna d’Africa di Dioniso, questi giunse con le sue truppe in un posto chiamato Ammodes, un arido deserto di sabbia.
L’esercito era in grande pericolo perché affondava sempre più nella sabbia e aveva completamente finito l’acqua da bere.
Stremati, i soldati si erano fermati quando un ariete si avvicinò e si levò in volo. Rinvigoriti da quel prodigio tutti seguirono l’animale fin dietro ad una duna dove, invece dell’animale, trovarono una fonte d’acqua fresca. Dioniso ordinò allora di costruire un tempio in quel luogo, tempio dedicato a Zeus Ammone, e di scolpire una statua del dio raffigurato con le corna di ariete.
Successivamente mise l’Ariete fra le costellazioni, in un posto dove il Sole sarebbe ritornato ogni anno e la natura sarebbe stata rinnovata dal giovane Sole primaverile.
La versione di Leon narra che al tempo del regno di Dioniso sull’Egitto, mentre egli insegnava le arti agli uomini, venne dell’Africa un tale di nome Ammone che aveva portato con sé un gregge di pecore. Egli voleva la protezione del dio e chiedeva che gli venisse riconosciuta la paternità dell’invenzione del gregge.
Dioniso lo ricompensò donandogli quelle terre poste dalla parte opposta a Tebe e decretò che tutte le statue che avrebbero raffigurato Ammone avessero le corna dell’ariete, a ricordo del fatto che egli per primo aveva insegnato agli uomini l’uso del gregge. Infine, per commemorare l’evento, un Ariete fu posto fra le costellazioni del cielo.
Anche Dante inserisce questa costellazione nella sua opera maggiormente conosciuta, la Divina Commedia, e precisamente nel Purgatorio.
Pd. XXVIII, 116-117
... questa primavera sempiterna
che notturno Ariete non dispoglia ...Pd. XXIX, 1-3
Quando ambedue li figli di Latona (Apollo e Diana, Sole e Luna),
coperti del Montone e de la Libra,
fanno de l'orizzonte insieme zona ...
L'"Ariete notturno" di Pd. XXVIII, 117 è da identificarsi con la stagione autunnale.
All'inizio della primavera il Sole è in congiunzione con l'Ariete: quando, dunque, il Sole tramonta, tramonta con esso anche la costellazione che, essendo "diurna", cioè presente nel cielo durante il giorno, resta invisibile all'occhio umano.
La costellazione opposta all'Ariete, la Bilancia, in primavera è "notturna", cioè sorge con il tramontare del Sole (Pg. II, 6).
Nonostante sia poco brillante, la costellazione dell’Ariete ha assunto una grande importanza in astronomia perché circa 2.000 anni fa conteneva l’equinozio di primavera.
Questo punto viene assunto come l’origine della coordinata celeste detta "ascensione retta" ed è chiamato anche "primo punto di Ariete" o "punto gamma".
Il grafo del segno suggerisce l'immagine di corna caprine (da qui il nome "Montone"), ma anche un germoglio che spunta (la Primavera) e la lettera greca "gamma" che definisce l'equinozio di primavera.
A causa della precessione degli equinozi, questo punto si è spostato nei Pesci ma, per ragioni storiche, l’equinozio di primavera viene tutt’ora chiamato "primo punto di Ariete".
La costellazione zodiacale dell’Ariete, che copre 441 gradi quadrati e si individua ad ovest della costellazione dei Toro (o meglio ancora, delle Pleiadi); è caratterizzata da un arco che unisce la stella più luminosa (la alta, Hamal, cioè l'ariete, oppure Elnath, "quella che colpisce con le corna", una gigante gialle distante 85 anni luce) da una parte con la beta (Sheratan, una stella bianca distante 46 anni luce) e la gamma (Mesarthim, è una stella doppia ed è una bella doppia, composta da due stelle disuguali, la prima arancione e l'altra biancastra, hanno il moto proprio in comune.
È una delle prime stelle doppie scoperte: fu Robert Hooke a notarla nel 1664 mentre seguiva una cometa. È una coppia facile: le componenti, bianche, hanno magnitudini 4,75 e 4,83 e la loro separazione è di 8".); dall'altra, si sale ai quartetto composto dalle stelle n. 33, 35, 39 e 41, per scendere verso sud-est alla zeta, alla delta ed alla epsilon.
Il quartetto sopra citato non era anticamente accomunato all'Ariete. Bartschius, genero di Keplero, pensò bene di riunirlo nei suo globo celeste dei 1623 in una Mosca, che si ritrova in seguito in altre opere (l'Atlante di Bode e le carte di Secchi) ma poi scompare definitivamente: oggi, le quattro stelle appartengono all'Ariete.
I pochi oggetti del profondo cielo nell'Ariete sono molto deboli. Tra di essi, le galassie NGC 697 (a nordovest di b), NGC 772 (a sudest di b), NGC 972 (nell'angolo nord della costellazione), e NGC 1156 (a nordovest di d).
Esistono anche alcune variabili, le quali sono tutte piuttosto deboli, mentre le più luminose, come la n. 38 (UV Ari), la n. 53 (UW Ari) e la n. 56 (SX Ari) mostrano piccolissime variazioni.
53 (3h 04,6m; +17° 41'): è una variabile del tipo beta Cephei e varia tra le magnitudini 6,10 e 6,23. È importante perché è una delle tre cosiddette runaway stars cioè "stelle fuggitive"; dalla sua alta velocità si è infatti calcolato che essa sia partita, per qualche motivo non ancora ben chiaro, dalla nebulosa di Orione solo circa 5 milioni d'anni fa.
Lo stesso è avvenuto per le altre due, la Columbae e la AE Aurigae.
L'unica stella luminosa a variazione un po' ampia è comunque la:
45 (2h 53,Om; +18° 8'): la quale è nota come AZ Ari; è una variabile irregolare tra le magnitudini 5,9 e 6,3.
Otterrai qualunque cosa tu desideri,
se la desideri con amore.
Richard Bach
Conferenza del 5 aprile 2005
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